Lettera da Parigi
In aperto contrasto con l’articolato approccio in materia elettorale, seguito dai media in tutto lo scorso anno con una metodologia ragionata, una tempistica ben scandita e con chiarezza davvero cartesiana, la vigilia della fatidica scadenza di domenica prossima appare caratterizzata da un caotico affollamento sui teleschermi dei profili e degli appelli ufficiali dei dodici candidati. Frammisti a spesso stucchevoli “medaglioni” pubblicitari, compaiono i sondaggi dell’ultim’ora e gli interventi in extremis dei protagonisti come dei comprimari, regolati dall’implacabile criterio della “par condicio”, per di più spesso relegati alla rinfusa in improbabili fasce orarie residuali di palinsesti totalmente dominati dalla guerra in Ucraina: quasi che la scelta del futuro inquilino dell’Eliseo fosse un passaggio di routine, in qualche modo “banale”, e non dovesse invece segnare in profondità il destino della Francia e, con essa, dell’Europa.
Si ha talvolta l’impressione che anche gli opinionisti più rodati ed esperti tendano quasi a fugare – schermendosi, con sbandierata ed artificiosa “imparzialità”, dietro l’urgenza della crisi internazionale – l’ansia e il disorientamento che in extremis sembrano pervadere il Paese: distogliendosi così ad arte dall’affrontare l’autentico dilemma di una Francia in bilico, chiamata ad una scelta destinata a rivelarsi davvero epocale. Ne è la prova aggiuntiva l’attenzione – e gli spazi, anche se rispondenti al bilancino delle regole di contingentamento televisivo – riservata alle molteplici, quanto puramente simboliche, candidature “minori” e oramai irrilevanti: ben due personalità dichiaratamente trotzkiste in aggiunta all’esponente ufficiale del PCF (si chiama ancora così il partito comunista francese), un “ultra” sovranista a destra anche di Zemmour, accreditato di più del due per cento, un qualunquista popolare che rappresenta il mondo rurale del Sud-Ovest e altre… amenità che conferiscono stavolta più che in passato un carattere semi-grottesco alla selezione ufficiale e fra le quali si colloca purtroppo la stessa rappresentante della grande tradizione socialdemocratica francese in via di estinzione.
La candidata della destra nazional-popolare, che potrebbe insidiare l’incumbent persino al primo turno, (secondo sondaggi asseritamente “affinati” da nuove e più attendibili metodologie) ha compiuto con successo, come abbiamo ripetutamente evocato, la sua parabola di “normalizzazione” cosmetica e di “dediabolizzazione” personale e ideologica; alla stessa stregua, l’ipotesi di un suo possibile accesso al potere viene considerata, riferita e commentata dai più, quasi a configurarla come un banale avvicendamento politico consacrato dal normale esercizio della democrazia e non anche (e soprattutto) di un potenziale, inaspettato terremoto dalla portata deflagrante per il futuro del Paese. Con l’aggravante, sul travagliato fronte mondiale, che rappresenterebbe di per sé un ghiotto manicaretto per il Cremlino.
Conosceremo nelle prossime ore l’ordine d’arrivo del primo turno e lo scarto che separa il Presidente uscente dalla sua principale rivale dell’ultra-destra e dal “terzo uomo” dell’Unione popolare. Questi ha raggiunto le primissime posizioni nelle ultime rilevazioni consentite prima della pausa di stasera ed incarna una sinistra un po’ sgangherata, racimolata fra i populisti plebiscitari e protestatari e una frangia di “controtuttisti”, come li si definisce qui, tinteggiati di verde (antinuclearisti di lotta e non di governo) o di giallo (quello dei “gilets” redivivi cui si assommano gli anti-vax), ben più che di rosso.
Permane l’ombra del dubbio attorno all’insondabile portata che sull’esito finale della consultazione del 10 aprile avrà l’astensionismo e più in generale l’apparente indifferenza per un appuntamento considerato sinora come “la madre di tutte le elezioni”; insieme alle ripercussioni, forse decisive, a carico dei due “front-runners”, Emmanuel Macron e Marine Le Pen.
Quel che più sorprende è quanto rari siano coloro che, dopo premesse comunque lusinghiere attorno al percorso di “umanizzazione” personale e di “normalizzazione” politica della candidata della destra, si avventurano a ricordare il carattere eminentemente demagogico del suo programma e del suo progetto per il Paese, la sua cifra perdurante di nazionalismo primario anti-europeo, sovranista e sostanzialmente anti-americano, l’incognita postulata sul piano stesso della futura governabilità dall’ultra-generico e disinvolto annuncio di voler, in caso di vittoria, costituire un non meglio definito Esecutivo di Unità Nazionale. Tanto da confermare i timori, sempre più diffusi, che sia ormai svanita come neve al sole (quello “ingannatore” della conversione moderata del Rassemblement National) la conventio ad excludendum che aveva sinora preservato la Francia dalla pericolosa avventura sovranista e populista, radicatasi in maniera insidiosa e crescente negli irragionevoli auspici di una parte consistente dell’opinione pubblica.
In altre parole, anche coloro – e sono la maggioranza – che non avevano mai preso neppure in conto l’ipotesi di una “Marine Présidente”, considerata come una “non opzione” per la Francia sub specie aeternitatis, la includono oramai, senza sollevare le usuali obiezioni ideologiche e politiche, nel novero delle più accreditate ipotesi sul tappeto.
Tanto negli ultimi scampoli di campagna elettorale dei seguaci del Presidente – alle prese con la resipiscenza e forse il rimpianto di essere scesi in campo troppo tardi – che nell’intellighenzia classica, si cerca di far rivivere almeno lo spirito del “front Républicain”, come dimostrano i silenzi eloquenti degli Ex Presidenti Sarkozy e Hollande o le appassionate prese di posizione di intellettuali, vecchi e nuovi, come Henri-Levy o Carrère, la cui voce si è levata anche al di là delle Alpi. Ed a queste sollecitazioni, più o meno esplicite, concorre più di ogni cosa l’ambigua e non convincente abiura di Marine Le Pen (o dello stesso Mélenchon) della fede pro-russa professata fino alla vigilia della invasione dell’Ucraina.
Non resta che aspettare, sperare e confidare in una affluenza alle urne equilibrata e non eccessivamente sbilanciata dalla mobilitazione del voto di protesta “à tout prix”, contro Macron e contro l’establishment: il primo verdetto, anch’esso non ancora del tutto “cristallizzato” ed al riparo di imprevisti, è per domenica sera e dischiuderà una sfida successiva senza precedenti per virulenza dei toni e della contrapposizione fra visioni radicalmente diverse, in vista di una posta in gioco che stavolta ci riguarda tutti in Europa e che non ci permette di escludere il dischiudersi di orizzonti imperscrutabili e forse addirittura infausti.
l’Abate Galiani
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