Lettera da Washington
Il primo marzo è previsto il rituale “State of the Nation address”, davanti alle camere riunite, che è insieme un discorso programmatico e un consuntivo aggiornato del Presidente, solitamente infarcito di trovate retoriche e a volte più vicino a uno spettacolo serale della TV che non al maturo rapporto alla nazione, quale dovrebbe essere. È il primo per Biden, che sarà circondato da lupi affamati nel suo paese e fuori: l’anziano statista avrà milioni di spettatori in cerca di rassicurazione, risposte, progetti; un pubblico in attesa di conforto e di un percorso di progresso. Si sentirà parlare di pandemia, che è ormai acquisita nella consapevolezza quotidiana delle calamità come i tornado o le tasse; si scontrerà con l’astio, senza pietà né perdono, di quella fetta importante degli americani che non vedono più a portata di mano il “sogno americano”. Non è più l’epoca della spensieratezza, dell’ottimismo e della sicurezza. Sarà arduo per Biden ravvivare la fiducia nel futuro degli americani, e aiuterà se questi ultimi manterranno fede nella sua capacità governare le incertezze del periodo che viviamo.
Buona parte delle incertezze vengono da fuori. Naturalmente, questo è il momento più ricco di opportunità per tutti coloro che si contrappongono all’America, competitori, rivali o nemici che siano: un periodo di crisi si presta per sfruttare questa inattesa fessura che si presenta oggi, quando dilaga la deviazione nazional-populista che mina la compattezza del paese e getta ombre sulla credibilità del potere. Stiamo lasciando alle spalle un conflitto di vent’anni in Asia, proprio il tipo di conflitto che nessuno desiderava, e che infatti non ha portato fortuna a nessuno. Non c’è ansia di iniziarne un altro, ma la tensione internazionale è crescente. La pressione dall’esterno gioca come un fattore unificante; non arriveremo a vedere Trump e Biden a braccetto nei giardini di Lafayette Square, ma se c’è qualcosa capace di mettere al passo in un istante tutti gli americani non sono né i loro politici, né i loro generali, ma quelli dei loro avversari: nulla unisce tanto quanto una minaccia esterna.
La fine della guerra fredda aveva visto consolidarsi la presenza degli Stati Uniti come potenza egemonica, non più contrastata dall’Unione Sovietica ormai smembrata e alle prese con un grave degrado interno, mentre la Cina stava appena iniziando uno straordinario periodo di costruzione della nazione. Il fattore centrale dell’equilibrio precedente era stata l’assurda proposizione nota con la sigla MAD, che sta per “Mutual Assured Destruction” (ma significa anche “pazzo” o “rabbioso”): dato che un conflitto militare non avrebbe avuto vincitori, non restava che evitare scontri diretti, competere pacificamente, oppure per interposta persona.
Scomparsa l’URSS, l’egemonia americana ha spalancato la porta ai conflitti asimmetrici, i soli possibili; ma ora l’egemonia non è più scontata e conta più di uno sfidante; la partita si riapre perciò a un livello più complesso.
La Russia di oggi è un paese ben diverso da quello di vent’anni fa. Putin, qualunque altra cosa abbia fatto, ha certamente restituito alla nazione una fierezza che sembrava persa dopo il fallimento del comunismo, e che il suo grande paese reclama a buon diritto. Ma non per resuscitare la grande macchia che l’aveva oscurato: sarebbe allarmante se questa fierezza dovesse servire a creare la condizioni per un tentativo di riedizione dell’impero sovietico, sia pure senza falce e martello.
Un altro paese che non aveva mai perso di vista l’obiettivo di risollevarsi dopo secoli di umiliazioni di ogni tipo è la Cina. È stato un lungo cammino, che è cominciato in Corea costringendo gli Stati Uniti a un sanguinoso pareggio, poi - dopo un lungo isolamento - recuperando per via negoziale i territori ceduti alle potenze straniere nei secoli scorsi, Macao e Hong Kong; il solo territorio ancora “irredento” è oggi Taiwan.
La lista dei paesi che hanno riguadagnato fierezza sarebbe più lunga, e comprende buona parte dell’Europa: ma è in ogni caso il frutto della pace che abbiamo goduto, e non delle guerre - che per fortuna abbiamo sostanzialmente evitato - sia pure con una dolorosa eccezione. Eppure oggi nei notiziari vediamo nuovamente riapparire in Europa immagini di trincee nella neve e di convogli di blindati.
Questi sviluppi recenti sono allarmanti, se si perdona il gioco di parole, perché mostrano uno scenario compatibile con i più neri svolgimenti. Se la Russia di Putin intendesse ricreare sotto una diversa forma l’universo dell’URSS, come stratagemma per affermare il ritorno della Russia sulla scena delle grandi potenze, allora la confortante sensazione di sicurezza che ci siamo concessi per questi pochi decenni torna seriamente in dubbio. I protagonisti, in Cina come in Russia, hanno certamente interesse a sfoggiare la riguadagnata libertà d’azione, ma nessuna delle parti dovrebbe trascurare di prendere sul serio il rischio di un conflitto, se non presumendo, come fecero nel 1914 a Vienna e nel 1939 a Berlino, la passività altrui.
Il rischio di una lettura errata del vero “State of the Union” sarebbe grave. Biden, consapevole di certo dell’immagine bonaria legata alla sua persona, può avere interesse a correggerla; se così è, il raid appena lanciato contro ISIS in Siria potrebbe andare in quella direzione, avendo per di più come obiettivo un comune nemico. Purtroppo, riproporre il dialogo tra le nazioni su un terreno che emana profumo di cordite invece che di margherite, smosso dai cingoli invece che dagli aratri, non si limiterebbe a portarci indietro concludendo questo intervallo di speranza e di idee che ci siamo regalati negli ultimi trent’anni. La guerra tra grandi potenze stritola sempre chi si trova sul cammino, e l’Europa che non abbiamo saputo costruire negli anni buoni, quando si poteva, tornerebbe ad essere solo un ingenuo miraggio.
Forse conosceremo una riedizione della “guerra fredda” tra USA e Russia, fatta di eruzioni localizzate, sotto lo sguardo attento di Pechino. Il suo volto sarebbe quello che si intravede già in queste settimane, quando l’avversario saggia il terreno. Ma i tempi sono cambiati, e non siamo più configurati come negli anni ’90; se anche una simile guerra riuscisse a restare fredda, il prezzo sarebbe elevato, e nessuno potrebbe supporre di uscirne indenne.
Non resta che augurarci che il primo marzo, quando Biden parlerà alle camere riunite del Congresso degli Stati Uniti rivolgendosi alla sua nazione, ci convinca di avere fondati motivi - dentro e fuori i confini del paese - per farlo con serenità.
Franklin
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