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Boris Pahor, un'idea d’Europa lunga 108 anni

Lettera da Bruxelles


108 anni ha vissuto Boris Pahor, grande scrittore di lingua slovena scomparso a fine maggio a Trieste, dove era nato. Una longevità che ha come voluto significare un modello di Europa più tenace di altri, un pilastro di coscienza occidentale di cui non si può fare a meno e che ci si è tenuti stretti: l’Europa degli uomini e delle donne transnazionali, di frontiera, i veri pionieri dell’integrazione. Gente come De Gasperi, che fu deputato della minoranza italiana al Parlamento asburgico, deputato del Regno d’Italia e statista della Repubblica; come Jean Monnet, francese che visse a lungo a Londra, poi negli Stati Uniti, sposo di un’italiana a Mosca; come Spaak, un fiammingo di madrelingua francese o Schuman, un lussemburghese che apparteneva tanto alla sfera latina che a quella sassone. O anche come Carlo Sforza, un aristocratico repubblicano, esule in Asia e nelle Americhe e con moglie belga. Questi sono solo alcuni dei più famosi, delle migliaia di questi transfrontalieri che il destino o la volontà ha trasformato in altrettante pietre angolari dell’Europa unita.


Boris Pahor è stato uno tra i più coraggiosi. Vittima e vincitore al tempo stesso, cittadino italiano ma letterato sempre sloveno, precursore di una Slovenia nell’Unione Europea e caposaldo della sempre troppo trascurata minoranza slava italiana, internato a Dachau e Bergen-Belsen, scrittore tradotto in tutta Europa e autore di un classico come “Necropolis, uomo dalla grande eleganza, antifascista militante e strenuo denunciatore prima degli efferati crimini italiani in Slovenia e poi delle atrocità di Tito. Al suo funerale c’era un vescovo italiano, una senatrice italo-slovena e tre ministri sloveni. Non avrebbe stonato la presenza anche di un rappresentante del nostro governo, e ancora meno un segno di presenza, un messaggio, da parte delle istituzioni europee. Perché Pahor era già Europa, incarnata, vissuta, testimoniata durante tutta una vita.

La disattenzione da parte di Bruxelles è apparsa, a suo modo, anche come una forma di gelosia verso la patria culturale e anagrafica di Pahor: Trieste. Perché Trieste non solo è Mitteleuropa, è Balcani, è baricentro tra oriente e occidente, ma con la sua anima latina, slava, austro-ungarica e sassone – e non è facile dire quale sia la più impregnante – è la capitale naturale dell’Europa (Bruxelles, pochi lo sanno, lo è divenuta solo perché il primo segretariato delle istituzioni europee fu affidato, con una scelta che doveva essere temporanea, in virtù di una rotazione che alfabeticamente cominciava con la B del Belgio).


Oggi, in un’Europa nuovamente lacerata e dove per la “frontiera” si torna a morire, città madri come Trieste e personalità come Boris Pahor, visti da Bruxelles, sono di nuovo la meta.


Niccolò Rinaldi

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