È stato presentato ieri a Roma nella bella sala dei convegni della libreria Spazio Sette il nuovo libro del direttore del Foglio Claudio Cerasa “Le catene della destra”, in cui l’autore pone il problema del contrasto fra le posizioni politico-culturali della destra in questi anni e le necessità in cui si trova la nuova premier in pectore di non discostarsi troppo dalle linee tradizionali dei governi italiani sulla politica estera, la politica europea, la politica economica. Il dibattito meritava di svolgersi intorno al quesito posto da Cerasa, e cioè se queste posizioni tradizionali della destra accetteranno di essere riposte e accantonate o se invece esse riemergeranno, in che forma e con quali conseguenze politiche.
Invece non è stato così perché all’interlocutore prescelto, Matteo Renzi, pur facendo qualche rapido accenno a questo tema, premeva parlare di altro e lo ha fatto senza farsi distogliere né dalle domande del presentatore, né dal tema che gli era stato assegnato. Renzi ha cominciato il suo discorso dicendo che il governo Meloni è figlio degli errori pervicaci del segretario del PD Enrico Letta ed è tornato più e più volte su questo concetto aggiungendovi soltanto che egli considera impossibile una coincidenza di posizioni con il PD nei prossimi mesi.
Nell’ascoltare queste posizioni, veniva naturale osservare che la vittoria dell’on. Meloni si è concretizzata in una lieve maggioranza nel Senato resa possibile dalla divisione del centro-sinistra fra PD e cosiddetto Terzo polo. Infatti, senza questa divisione il centro sinistra avrebbe ottenuto una decina almeno di seggi uninominali del Senato in più, facendo venir meno la maggioranza della destra. Dunque se di una responsabilità della vittoria della destra si deve parlare, essa va attribuita congiuntamente a tutti i protagonisti della fallita intesa che, dopo aver sfiorato la possibilità di una presentazione comune, l’hanno poi abbandonata.
Ascoltando le dichiarazioni di Renzi, ci è tornata alla mente una osservazione di Adolfo Tino, uno degli ingegni più lucidi dell’antifascismo, che aveva vissuto gli anni della nascita e dell’avvento al potere del fascismo come notista parlamentare del Giornale d’Italia ed aveva personalmente conosciuto e frequentato la classe politica dell’epoca. Tino sosteneva che quello che aveva consentito la vittoria del fascismo erano certamente stati i Fasci e il crescente sostegno popolare per il movimento di Benito Mussolini, ma che quello che aveva portato alla vittoria parlamentare di Mussolini era stato l’odio invincibile che aveva diviso le file del partito liberale fra Nitti e Giolitti. Se queste due personalità, che erano le maggiori del mondo liberale dell’epoca, avessero trovato un punto d’intesa - sosteneva Tino - sarebbe potuto nascere un governo meno fragile del governo Facta e probabilmente il Re si sarebbe sentito di firmare la proclamazione dello stato d’assedio. E la divisione era durata anche nella fase successiva, nella quale i giolittiani avevano preso parte alla maggioranza di Mussolini, mentre Nitti si preparava a una opposizione frontale e all’esilio.
Il mondo democratico che considera come grave preoccupazione la svolta che sta per determinarsi nel governo del Paese non può non assegnare una responsabilità obiettiva al PD e al Terzo polo, come anche ai 5 Stelle, per non essere riusciti a evitare ciò che poteva e doveva essere evitato, come confermano i dati elettorali. E vede in questo aspro rimpallo di accuse la premessa per una frantumazione delle opposizioni e dunque una loro incapacità di costituire un valido argine contro l’occupazione dello Stato da parte della destra estrema.
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