Al di là del fatto che tutti i giornali riconoscono che il governo Draghi è riuscito a varare il decreto sulle semplificazioni nei tempi annunciati, negli articoli e nei commenti apparsi ieri sulla stampa circolano molti dubbi che le misure varate possano davvero rivelarsi efficaci. In alcuni articoli si fa notare esplicitamente che il decreto ripercorre strade già tentate senza successo in passato. Si aggiunge, però, che la differenza è data dal fatto che oggi vi è un governo autorevole, con ciò facendo intendere che, se queste misure non dovessero essere efficaci o dovessero esserlo solo in parte, il presidente del Consiglio avrebbe l’autorità e la forza politica di correggere la rotta e di adottarne tempestivamente delle altre più efficaci.
Diremo fra un momento qual è l’implicazione politica di questa valutazione, ma prima vogliamo soffermarci su un articolo e su un’intervista nei quali viene identificato con maggiore precisione il problema che il decreto-legge del governo potrebbe non risolvere. Si tratta infatti di osservazioni in linea con questioni che Il Commento Politico ha sollevato ripetutamente negli ultimi dodici mesi e che erano al centro della proposta elaborata dalla Fondazione Ugo la Malfa presentata nel dicembre scorso. Forse – come si usa dire – il tempo è galantuomo.
L’articolo che vogliamo richiamare è a firma di Sergio Rizzo ed è il commento che il giornalista ha dedicato ieri su Repubblica alle norme varate dal Consiglio dei Ministri. Dopo avere osservato che il provvedimento assomiglia molto ad altri che lo hanno preceduto che, anch’essi, individuavano corsie preferenziali, fissavano limiti di tempo per le varie tappe dei procedimenti, estendevano i casi di silenzio-assenso, tutte cose già tentate in passato senza successo, Rizzo scrive che quello che non è cambiato è il numero delle stazioni appaltanti che “sono le stesse di prima e numerose (più di 32 mila) come prima.” In più, “gli uffici ministeriali sono i medesimi e in molti casi neppure la poliburocrazia… è cambiata.” L’implicazione di Rizzo è che, pur supponendo che i vari provvedimenti taglia-tempi contenuti nel decreto siano scritti meglio di quelli che li hanno preceduti, la loro utilizzazione da parte di 32 mila stazioni appaltanti non potrà certo essere uniforme: alcune stazioni appaltanti riusciranno a utilizzare rapidamente le nuove procedure, altre avranno difficoltà a farlo, altre ancora eserciteranno una resistenza passiva contro l’adozione delle nuove procedure. La differenza – conclude Rizzo – è che “timoniere è Mario Draghi…e che il fallimento di questo decreto... sarebbe il fallimento di un’intera classe dirigente.”
Sulla Stampa, invece, vi è un’interessante intervista di Carlo Bertini a Sabino Cassese. Cassese non entra nell’esame della normativa sulle semplificazioni contenuta nel decreto del governo. Si sofferma, piuttosto, sulla natura e sulla struttura della cosiddetta cabina di regia. Mette in luce il fatto che l’assegnazione di un potere decisionale alla Presidenza del Consiglio è del tutto coerente con l’obiettivo di realizzare un piano straordinario di interventi come il Pnrr e individua nei poteri sollecitatori e sostitutivi attribuiti alla Presidenza del Consiglio la chiave del successo di questa impostazione. A questo punto, però, Bertini, rivelando qualche dubbio sull’efficacia delle semplificazioni previste dal decreto, chiede a Cassese “se non sarebbe stato meglio istituire un organismo indipendente per pianificare gli interventi del Recovery Fund come quello proposto da Giorgio La Malfa.” Cassese risponde che quella era una delle due opzioni possibili, l’altra, che il governo Draghi ha preferito, è “la formula francese” di una iniziativa di missione che si sovrappone alle amministrazioni ordinarie per il tempo limitato della realizzazione del Recovery Plan.
Cassese sembra abbastanza fiducioso che il modello adottato possa funzionare e ci auguriamo che abbia ragione. Osserviamo però che non ci sembra che il governo Draghi abbia posto a confronto le due formule ed abbia prescelto la soluzione francese. L’impressione è che il governo abbia semplicemente preso atto - anzi per l’esattezza abbia dovuto prendere atto visto il tempo ormai trascorso - che il governo Conte aveva sollecitato le amministrazioni dello Stato a presentare i propri progetti nel quadro delle linee generali del Recovery Plan e che, giunti a meno di tre mesi dalla data di presentazione del Piano italiano, sarebbe stato impossibile ricominciare da capo. Probabilmente vi sarebbe stato un ritardo e soprattutto si sarebbe aperta una discrasia esplicita con il governo Conte. Non sappiamo se, investito dall’inizio del problema, Draghi avrebbe scelto la soluzione farraginosa di lavorare con 32 mila stazioni appaltanti cercando di sovrapporsi ad esse qualora non funzionino o se non avrebbe preferito la soluzione del modello della Tennessee Valley Authority. Non lo sapremo mai e comunque quello che il governo ha cercato di fare è stato di migliorare la qualità del programma e di aggiungervi una governance efficace. Che ci sia pienamente riuscito non si direbbe leggendo i giornali della domenica. Salvo che tutti concludono che, finché c’è Draghi, i problemi potranno essere risolti con interventi ad hoc.
Qui viene la considerazione politica. Nei giorni scorsi abbiamo notato che sia il segretario del PD – in modo esplicito – sia il segretario della Lega in modo più involuto hanno indicato che il governo Draghi dovrà proseguire la sua opera fino al termine ordinario della legislatura, cioè fino alla primavera del 2023. Questo è già un passo avanti di rilievo. Abbiamo l’impressione che la decisione di affidare alle amministrazioni ordinarie dello Stato la realizzazione del Recovery Plan confidando nei poteri “sollecitatori e sostitutivi” di Mario Draghi sposti inevitabilmente più avanti nel tempo il termine naturale di questo esperimento portandolo al 2026 che segna la conclusione del piano europeo.
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