Lettera da Parigi
I risultati definitivi delle elezioni legislative e la frantumazione della rappresentanza parlamentare (pur non inattesa) formano oggetto, sin dal “day after”, di attoniti commenti e di analisi catastrofiste di tutti i commentatori abituali, che si abbandonano ad ipotetiche, quanto fantasiose, previsioni sui possibili sbocchi della crisi politica in Francia. Il leit motiv ricorrente è quello della spada di Damocle dell’ingovernabilità, considerata come la peggiore e la più irrimediabile delle sciagure, a fronte della oramai consolidata abitudine dei francesi, imbevuti di cartesianesimo, di conoscere senza indugi, con certezza e chiarezza, chi è legittimato a governarli fin dall’apertura delle urne.
Depositatosi fin dalla tarda nottata di domenica scorsa l’ingannevole polverone sollevato ad arte (e con sfrontatezza trionfalistica) soprattutto da Mélenchon, sono emersi più nettamente gli autentici profili del terremoto che ha sconvolto il panorama politico nazionale: il bruciante smacco subìto dal Presidente Macron e dal suo esecutivo (con la incontestabile, ed irrimediabile, perdita della maggioranza assoluta); la sconfitta sostanziale del progetto di conquista del potere della Nupes (che pur moltiplicando i seggi, ma ben al di sotto di tutte le anticipazioni demoscopiche, non può rivendicare né l’accesso al Governo né un controllo esclusivo dei giochi parlamentari); l’immediata sconfessione da parte dei suoi sodali socialisti, verdi e comunisti del maldestro tentativo dell’attempato neo-populista di salvare la faccia con la proposta di costituire un gruppo unico; lo scontato ridimensionamento della destra neo-gollista (con la perdita di quasi la metà dei propri deputati e quindi del ruolo di principale forza di opposizione): una Assemblea Nazionale non dissimile, per molti versi – se non per l’ingombrante presenza delle ali estreme, entrambe qui ancora dichiaratamente ostracizzate – da quella di tanti Parlamenti in Europa, ma foriera per la Francia di una situazione del tutto inedita e paventata alla stregua di un male insanabile persino dai più smaliziati dei politologi.
Ad accentuare lo smarrimento, si è unito il dato clamoroso – anch’esso fortemente sottostimato dai sondaggisti – della sola, vera vittoria politica emersa domenica sera, quella di Marine Le Pen e del Rassemblement National che conquista 89 seggi e la posizione di principale gruppo parlamentare di opposizione (con l’immediata rivendicazione di uno dei più significativi privilegi attribuitogli per consolidata consuetudine ed iscritto oramai nei regolamenti, quello di presiedere la decisiva Commissione Finanze).
In questa atmosfera febbrile, si fa gradualmente luce una presa di coscienza – che rimane ancora fortemente minoritaria – tesa ad invitare gli esponenti politici a metabolizzare più serenamente il risultato elettorale, a superare le polemiche virulente della campagna e la ripetizione meccanica di tutti gli slogans della “demonizzazione” del macronismo , a cercare in concreto in Parlamento potenziali alleanze che possano condurre ad intese attorno alle principali priorità di un governo di minoranza: la più naturale (considerato anche il prevalente orientamento “a destra” dell’elettorato e del Paese) sarebbe una qualche alleanza, organica o “puntuale”, con “Les Républicains”. Per ora prevale il pessimismo e la tetragona resistenza dei vertici del partito ma anche nel gruppo parlamentare, affidato ad arte ed a grande maggioranza ad un giovane falco pregiudizialmente contrario ad ogni compromesso: eppure la sfortunata candidata neo-gollista alle Presidenziali, Valérie Pécresse, aveva addirittura accusato Macron di aver “plagiato” il progetto di insieme dei ”Les Républicains” e un terreno comune, in particolare sul piano economico, potrebbe essere individuato, una volta accantonati i rancori, anche personali, e uno spirito di vendetta e di rivalsa particolarmente accesi nei confronti di Macron e dei tanti ex-gollisti da lui “débauchés”, “traviati” cioè con lusinghe per acquisirli al suo campo.
Mai come oggi, in questo quadro lacerato ed a fronte di una assunzione di iniziativa in Parlamento, necessaria da parte del campo presidenziale (che detiene pur sempre una maggioranza relativa non eludibile, arricchitasi di qualche ulteriore unità nel conteggio definitivo) vengono a mente le metodologie proprie al parlamentarismo e le virtù – anche personali – di pazienza, di tenacia, di ricorso ai toni moderati e concilianti propri dei tanti leaders distintisi in tutta la storia delle democrazie nella ricerca di soluzioni concordate ed allargate: a cominciare da quella necessità dei tempi lunghi e della previa “decantazione” (uno strumento preliminare imprescindibile per magistrali tessiture strategiche quali quelle nostrane di Aldo Moro, per citare solo un esempio, che è stato qui sorprendentemente ricordato). Ma a queste “combinazioni” come si dice testualmente in Francia, risolutamente si oppone a volte con sprezzante sarcasmo la stragrande maggioranza della classe politica e dei media francesi. E i tanti “massimalisti” continuano quindi a immaginare scenari estremi e radicali, fra i quali campeggia l’ineluttabilità dello scioglimento nell’arco dei prossimi mesi della nuova Camera, che sarebbe inevitabilmente preceduta e accompagnata da un blocco del Paese, con il suo corredo di purtroppo prevedibili ed accesi movimenti di piazza.
Nel frattempo, procede – con ordinata solennità e nei ritmi previsti – il dispiegamento del dispositivo democratico e la successione di adempimenti che dovrebbe condurre, oramai costituitisi i gruppi parlamentari con i loro nuovi presidenti, all’insediamento dell’Assemblea e all’elezione (stavolta più cruciale che mai) del nuovo (o nuova) occupante del “perchoir”, lo scranno più alto riservato al Presidente, prevista a scrutinio segreto martedì prossimo, 28 giugno. Alla terza votazione, sarà sufficiente la maggioranza relativa… Potrebbe avere quindi qualche “chance” la candidata designata da Renaissance, l’attuale Ministra ed ex Presidente della commissione Affari istituzionali Braun Pivet, giurista di fama proveniente dal Partito Socialista.
In parallelo, si è svolta (e questa è stata una vera “novità”) una intensa tornata di consultazioni all’Eliseo che nella circostanza i soloni dell’ortodossia gollista hanno irriso, paragonandolo alla Corte belga o al nostro Quirinale, con tutti i leaders politici delle formazioni che disporranno di gruppi parlamentari. Un quadro di insieme da cui è emersa una linea di unanime rispetto per le istituzioni e per le procedure costituzionali, con la sola incrinatura degli Insoumis in blue jeans e Tshirt, cui ha fatto da contraltare un Rassemblement National indottrinato da Marine Le Pen all’osservanza delle regole del galateo parlamentare, fino all’invito ai suoi di presentarsi in giacca e cravatta. Un segnale aneddotico, è vero, ma che viene qui letto come l’ennesima controprova della strategia di normalizzazione della leader dell’estrema destra.
Incalzato dai media, dagli oppositori e persino dai suoi, Macron non ha potuto far durare più di due giorni la fase di decantazione che pure avrebbe preferito più lunga e si è quindi solennemente rivolto alla Nazione in un indirizzo collocato proprio alla vigilia del Consiglio Europeo, e dei vertici Nato e G7.
La breve allocuzione di Macron (meno di dieci minuti) in diretta televisiva a reti unificate si è sostanziata nella quintessenza della strategia costantemente adottata dal giovane leader nei momenti più acuti di crisi, con un dosaggio di drammatizzazione e di incitamento alla serenità; con la ferma rivendicazione della legittimità piena del suo rinnovato mandato presidenziale, ma con la contestuale, equilibrata presa d’atto dell’inedita situazione verificatasi sul piano parlamentare per effetto della deplorata astensione, componente integrativa della forte domanda di cambiamento salita dal Paese. Infine, con un primo accenno alla “road map” cui intende attenersi, affinché cambi radicalmente e consensualmente il modo “di governare e di legiferare” in un pragmatico superamento della formale ortodossia ai dettami della Quinta Repubblica. È mancato, tuttavia, più ancora che in passato, ogni segnale di cedimento all’empatia ed a tentativi di recupero di un consenso popolare, che il radicalismo dello schieramento a lui personalmente avverso (tradottosi persino, in Bretagna come in Provenza, nella innaturale convergenza di estrema destra ed estrema sinistra pur di far cadere i suoi fedelissimi Ferrand e Castaner) sembra rendere per ora irrecuperabile anche solo sul piano emotivo. Una pregiudiziale anti Macron che sembra segnare, nel breve periodo, la stessa praticabilità delle alleanze parlamentari possibili e che lascia impregiudicata la futura avanzata dell’avversario populista e sovranista.
Il Presidente, tuttavia, non sembra darsi per vinto: nel suo richiamo all’esigenza di agire presto e bene nell’interesse superiore del Paese, con la buona volontà di tutti per consentire, se non articolate intese di legislatura quantomeno il pragmatico ricorso ad una lettura costruttiva dei principali disegni di legge da approvare d’urgenza (in materia di potere di acquisto, di transizione ecologica, di scuola, di sanità e di sicurezza), molti hanno letto una estrema pressione contro le tentazioni ostruzionistiche e quindi il rinvio a carico delle opposizioni più riottose – quasi una chiamata in correità – della responsabilità politica di una crisi del disordine e dell’immobilismo.
l'Abate Galiani
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