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Il momento di una Difesa comune europea

Lettera da Bruxelles


Tra gli innumerevoli effetti nefasti della crisi afghana, c’è anche il serpeggiare nell’opinione pubblica, nei media e perfino nei politici con incarichi istituzionali, di un sentimento europeo di rivalsa verso gli americani: sarebbero loro ad aver fallito, ad aver trascinato anche l’Europa nel disastro afghano, a partire da Trump che volle il ritiro e la farsa dei negoziati a Doha, e da Biden, incapace di capire cosa sarebbe accaduto. È un sentimento figlio diretto di quel senso di superiorità storica e di inferiorità effettiva, con i quali gli europei, anche i più filo-occidentali, animano un anti-americanismo mai sopito. Anche in Italia, alcune sorprendenti dichiarazioni su chi avrebbe sbagliato più di altri vanno in questo senso.

In queste critiche c’è del vero: Trump volle Doha senza nemmeno consultare gli alleati, e Biden si è ritrovato a gestire, senza successo, il fardello di nazione-guida della coalizione, a Kabul come altrove.

Tuttavia gli europei dovrebbero ricordarsi che il 14 giugno scorso – ieri, non anni fa – sottoscrissero, tutti, il comunicato finale del vertice della NATO a Bruxelles. Tra i 70 paragrafi della lunga dichiarazione, solo due, gli striminziti 18 e il 19, trattavano dell’Afghanistan. Un po’ poco per la principale operazione NATO nel mondo per durata, perdite umane, costi, implicazioni strategiche. Due paragrafi anonimi, che a rileggerli ora appaiono un pezzo di letteratura fantastica per incapacità di analisi, con l'ingenuo auspicio che le parti trovino un accordo, col sostegno e la fiducia riposti nelle forze armate afghane, con la conferma del disimpegno avendo ormai raggiunto gli obiettivi (l’eliminazione di Bin Laden, che avrebbe giustificato venti anni di presenza, migliaia di vittime NATO, centinaia di miliardi spesi). La riflessione sull’Afghanistan si fermava a questo. Alla Russia, tanto per fare un confronto, furono dedicati dieci punti, e ben più sostanziosi.

Oggi è facile prendersela con la “morte cerebrale della NATO”, con gli errori degli americani, con “l’avevamo detto”. Al vertice parteciparono, fra gli altri, Macron, Draghi, Sanchez, Merkel, e nessuno ebbe da ridire, tutti sottoscrissero il documento.

Oggi gli europei farebbero bene a occuparsi del pugno di mosche di venti anni afghani pensando ad avere la capacità di dire qualcosa agli alleati americani dimostrando di sapere fare qualcosa, e meglio. In altre parole, di mettere mano a un meccanismo comune di difesa che oltre a costare molto meno al contribuente, come dimostrato da innumerevoli studi, è quasi sullo stesso piano degli USA per capacità operativa (o lo sarebbe stato con il Regno Unito, il quale, è significativo, si ritrova oggi sulla stessa posizione e con gli stessi interessi dell’UE – non fosse altro per la questione dei rifugiati e del rischio di terrorismo islamista). Nel dopo Kabul gli americani escono a pezzi, ma pur sempre con una grande forza militare persistente; agli europei non rimane neppure quella.

In questi decenni – è infatti questione che si trascina da decenni, non da anni – la politica di difesa comune ha compiuto numerosi passi in avanti, ma sempre passettini rispetto alle sfide da affrontare, e sempre confinati nel maggior coordinamento, nelle azioni comuni. Quel che invece serve è il salto di qualità nella creazione di una singola forza armata europea, con comandi, struttura, armamenti comuni e multinazionali. Una proposta talmente giustificata (e ispirata anche da Altiero Spinelli) che era già alla base della Comunità Europea di Difesa abortita nel 1954. È anche il “guardare avanti”, indicato dall’Alto Rappresentante Borrell nel richiedere la creazione di una forza di intervento europea.

Si sa che, affinché delle forze armate europee possano funzionare a modo, occorrono anche molte altre cose: un ministro della difesa europea, una politica estera europea ben più coesa, un servizio di spionaggio e contro-spionaggio europeo. E così non se ne fa mai niente, mentre oggi sarebbe più che giustificato estrapolare la riforma istituzionale della difesa europea dalle altre riforme e convocare una conferenza inter-governativa ad hoc. Oppure, in alternativa, procedere a una cooperazione rafforzata che metta insieme almeno gli Stati che ci stanno. Per una volta, i cittadini di tutti i paesi, scioccati dalle immagini di Kabul, darebbero il pieno sostegno. L’alternativa è limitarsi a leccare le ferite, gestendo insieme un’ondata di rifugiati verso i quali abbiamo qualche debito, e facendo fronte alla retorica (e forse anche della capacità di azione terroristica) di un “Allah akbar” invincibile.

Questo è il momento, non domani. Perché l’Afghanistan, che nei secoli passati fermò la corsa di Alessandro Magno, la presenza buddista a vantaggio dell’Islam, il colonialismo europeo in Asia, che dette un colpo decisivo alla caduta dell’URSS e all’affermazione del jihadismo, oggi potrebbe sferrare un nuovo colpo, provocando una crisi profonda del sistema di sicurezza occidentale. Oppure l’opposto: mettere sì in crisi l’attuale e insoddisfacente modello di cooperazione di difesa europea, ma per accendere finalmente una dinamica istituzionale che permetta all’UE di dotarsi di quel “soldato europeo” senza il quale avremo sempre lo sterile esercizio di chi non può e non vuole fare il lavoro dell’alleato americano. Ma, oggi è più chiaro che mai, deve farlo.


Niccolò Rinaldi


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