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L’altra conferenza sul futuro dell’Europa

Lettera da Bruxelles


I social europei si sono scatenati dopo la vittoria del Maneskin, con giovani (non solo) e meno giovani a commentare le chiacchiere sul presunto consumo di droga, sullo stile trasgressivo del gruppo romano, sugli sconfitti. Milioni di europei hanno seguito le finali di Eurolega e di Champions, per poi perdersi sulla beffa inflitta alle due squadre di Manchester, entrambe favorite, e sulla favola del Villareal, città neanche grande che mai aveva vinto nella sua lunga storia calcistica e che ha sfidato e battuto i grandi. Addirittura in molte città europee si è arrivati a scendere in piazza, e ovunque ci si è ribellati, contro l’annunciata creazione della Superlega calcistica. Al cospetto di una scelta che pareva irreversibile, “il popolo” ha costretto quasi tutte le società aderenti a una clamorosa retromarcia. E non in nome di una bandiera nazionale, ma in difesa di uno spazio d’incontro calcistico comune a tutti gli europei.

Questi episodi del maggio scorso hanno qualcosa in comune: confermano, se ve ne fosse stato bisogno, l’esistenza di un’opinione pubblica europea, che discute con passione di ambiti di condiviso interesse, fino al punto di battersi contro qualcuno – percepito come un potere forte – che prova a cambiare le regole di questa condivisione. Perfino in Bielorussia hanno preso i Maneskin come metro dei valori europei: non siamo questo, hanno detto, noi preferiamo la dittatura a questa libera trasgressione.

Bruxelles farebbe bene a pensarci sopra. Tanta partecipazione si è espressa in episodi nei quali l’Europa istituzionale era, ovviamente, assente. Niente del genere accade sui social network dei giovani o meno giovani europei, e tantomeno nelle piazze, quando sono in discussione scelte che pure investono, altroché, interessi collettivi. Ci si infiamma per una partita di calcio o per un palco musicale, dove nemmeno è protagonista la propria bandiera, ma si resta in buona parte indifferenti al cospetto dei risultati elettorali del paese accanto al nostro, o se i dati della pandemia peggiorano o migliorano “all’estero”. I cittadini europei dimostrano di potersi comportare con un linguaggio e anche un codice emotivo che li lega gli uni agli altri, tuttavia, si direbbe, basta che non si tratti di Europa in vario modo “istituzionale”.

Vedremo quale sarà la partecipazione alla Conferenza sul Futuro dell’Europa, che con la sua piattaforma condivisa cerca proprio di offrire una dimensione aperta e plurale. Per ora la partenza appare in salita, con un’accessibilità considerata non agevole dagli stessi federalisti europei e con regole del gioco ancora opache quanto al ruolo effettivo che avranno le proposte dirette dei cittadini. Ma nel frattempo Eurovision e UEFA per lo meno offrono indicazioni per una ricetta di successo: tutti possono partecipare, va avanti il migliore, attraverso il voto popolare vi sono strumenti di democrazia diretta, la comunicazione per immagine prevale su quella verbale, il linguaggio parla al cuore del cittadino, c’è spesso un senso di sorpresa – anzi, di sorpresa gioiosa. Quanto ai media, quando trattano le storie dei Maneskin o del Villareal, adottano per una volta una narrazione transnazionale, come se avessero messo l’orologio sullo stesso fuso orario. Un fuso orario europeo.

Ricette che funzionano e certo non replicabili sul piano della vita istituzionale. Eppure non trascurabili, perché alla loro base c’è la domanda di un’identità sociale europea che non sia né americana né altro, la voglia di un confronto che spezzi le barriere linguistiche e politiche, la capacità di “sentire” – tifare, vincere, perdere, indignarsi, anche per qualcuno fuori dal nostro orticello nazionale.

La società batte un colpo, transnazionale. La politica, con le sue regole spesso astruse, il suo linguaggio di eterno compromesso, la sua compartimentalizzazione nazionale, e gli stessi media, focalizzati così tanto sulle narrazioni domestiche, arrancano dietro. Su questa base, si può anche essere ottimisti, basta saper mettere in collegamento il lento processo istituzionale comunitario e le pulsioni già in atto nel fattore umano dell’Europa.


Niccolò Rinaldi

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