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L'inflazione corre e spaventa l'America

Lettera da Washington


Mentre si snoda una difficile settimana, con il montare della tensione attorno all’Ucraina, la lenta progressione delle indagini sull’amministrazione Trump e il suo ruolo negli eventi del gennaio 2021, la pandemia che non è ancora uscita dalla visuale dei cittadini, l’economia che lancia incerti segnali, la prima pagina del “Rappahannock Post”, quotidiano immaginario delle prealpi della Virginia, si apre con un titolo di prima pagina in cui si suggerisce che il maggiore timore degli americani oggi è l’inflazione, più delle lontane armate russe puntate verso il Dniepr. A 7,5% l’inflazione è un dato che supera di molto le previsioni, dimostrando come il momento che viviamo abbia sconvolto - oltre che la nostra vita sociale - anche i parametri abituali sui quali costruiamo le nostre previsioni economiche.

Pochi giorni fa si gioiva per i dati sulla copiosa imprevista offerta di posti di lavoro, e il giorno dopo ci si rammaricava che dipendesse dalla massiccia ondata di dimissioni registrata un po’ dovunque nel paese, segno preoccupante - ma no, secondo altri solo indice della nuova diffusa tendenza dei lavoratori americani a mettersi in proprio, con un computer, un tavolino e una connessione internet, invece di sobbarcarsi una commute quotidiana verso il centro e chiudersi in una sede commerciale con maschera e vaccino.

Questi fenomeni nuovi non sono del tutto capiti; l’inflazione invece è chiara a tutti. Il 7.5% non si vedeva dall’inizio degli anni ’80, lontano nel tempo, ma ancora nella memoria, così come l’ondata precedente verso la metà degli anni ’50. Contemporaneamente, la scala dei prezzi non si muove in modo uniforme: i valori immobiliari segnano sbalzi maggiori del solito, i prezzi dei generi di consumo ugualmente. In questo paese che vive e respira di automobili, la benzina ora costa su per giù quello che in Italia costava prima della pandemia. Ma molti americani non usano utilitarie, usano camioncini pick-up e robuste auto con trazione integrale, e non sono contenti. La morale è che il COVID ha cambiato anche il rapporto tra gli abituali indicatori economici, e si deve ricalibrare.


Non sono contenti neanche dell’andamento della lotta contro la pandemia. Dopo una partenza caotica, il sistema ora funziona meglio; i vaccini sono disponibili, anche nelle comunità rurali, e sembra passata la fase in cui i tamponi per i test erano introvabili. Nell’insieme, un europeo direbbe che si paga lo scotto di un sistema che non facilita la capillarità di una sanità nazionale. La sanità, in America, è una tassa costosa, prelevata non dallo Stato ma dal settore dell’industria sanitaria e assicurativa, una alleanza dalla presa invincibile sul cittadino; ne consegue che - scomparsi i “medici di famiglia” del secolo scorso - l’assistenza sanitaria è un lusso. La rinuncia alla medesima, purtroppo, è un lusso ancora maggiore. Anche qui, come altrove, la pandemia è politicizzata: gli obblighi di maschera e vaccinazione sono scintille in una polveriera, e di fatto solo una metà degli americani usa una maschera in pubblico, anche se quasi tutti dicono di approvarla; due terzi degli americani sono vaccinati. Il problema è nell’obbligo, perché ciascuno rivendica il diritto di scelta e non accetta in silenzio l’imposizione governativa: una vecchia convinzione del tempo dei pionieri, molto radicata.


Resta infine una profonda inquietudine per gli sviluppi intorno all’Ucraina, che nell’atmosfera di crescente nazionalismo alimentato dal quadriennio trascorso non è da trascurare. Il confronto con la Russia porta alla mente evidentemente ricordi e timori che si credevano scongiurati, e l’America - dopo la figuraccia della ritirata da Kabul - soffre in questi tempi di una irritabilità accresciuta - più o meno come è successo dopo Saigon, quando ha condotto a un rimbalzo di bellicosità e di militarismo. Finora i media hanno evitato di soffiare sul fuoco, grazie alla intensa diplomazia di Biden e Blinken e all’impegno con cui in Europa ci si è impegnati a cercare una via di uscita. Esiste nel pubblico ancora una tendenza a vedere l’escalation in corso come un episodio di guerra fredda, basato su una mossa prepotente in un momento in cui si intravede una possibile debolezza dell’avversario, o addirittura un avversario debole. Si tratta di un approccio transazionale alla Trump, quando sarebbe utile invece abbracciare una visuale più profonda e cercare di approfittare di questa tensione per avanzare una soluzione a un problema reale, molto più importante per americani ed europei insieme: stiamo vivendo gli anni del dopo-URSS come se fossimo ancora in presenza di un sistema di zone di influenza che non si prestano a fornire sicurezza ad entrambi i lati del confine. Non sarà facile trovare una soluzione ai quesiti aperti sul territorio, ma senza di essa avremo davanti una sequenza di simili pericolose situazioni, al limite del conflitto aperto. Nel tempo, non c’è sicurezza su un solo lato della frontiera: quarant’anni di guerra fredda ci hanno insegnato che per essere tale, la sicurezza deve esistere per entrambi i contendenti, se si vuole che si trasformino in vicini. In partenza, ciascuno ha un’idea propria di ciò che è essenziale per costituire la sicurezza propria. L’opinione pubblica qui è forse ancora un po’ lenta nel percepire questo angolo visuale, residuo del lungo confronto ostile con la Russia dell’URSS.


Nel frattempo, la popolarità del governo è a rischio, e cala sia tra Repubblicani che tra Democratici.


E Trump in tutto ciò? La lenta, laboriosa macchina della giustizia è ingannevole nel suo apparente disinteresse… e ora lo sta dimostrando. In primo luogo, tra poche settimane comincerà davvero la campagna per le elezioni di mezzo termine, che faranno o disferanno il governo Biden. Coinciderà con la “maturazione” del dossier dell’ex Presidente, che si sta arricchendo di documenti, testimonianze, e conferme.

E - questo è l’avvenimento più importante della settimana politica - il partito Repubblicano mostra finalmente segni di volersi disassociare dal culto per Trump. Per cominciare Pence, l’ex-Vicepresidente che aveva respinto l’ordine di Trump di invalidare le elezioni, ha reiterato la propria posizione in materia, affermando che Trump era in errore quando gli attribuiva un simile potere. Lo spunto successivo, forse più significativo, lo ha fornito la reazione del Senatore Mitch McConnell, l’autocrate dei Repubblicani al Senato, contro la censura applicata dal partito a due parlamentari Repubblicani per aver condannato la presa del Congresso il 6 gennaio 2021. I due (una dei quali è la figlia dell’ex Vicepresidente Cheney) avevano affermato che gli scalmanati che tutti abbiamo visto erano impegnati in un atto di rivolta contro le istituzioni: secondo il partito si trattava, invece, di “cittadini che esercitavano il loro diritto di esprimersi in normale dialogo politico”. Per salvare tardivamente l’onore del partito, McConnell è intervenuto in Senato per criticare questa censura, ribadendo che non poteva esserci dubbio su quegli eventi cui tutti avevano assistito: si trattava, ha ribadito, di una “insurrezione violenta con lo scopo di impedire la pacifica trasmissione dei poteri da una amministrazione alla successiva, dopo una elezione legittimamente certificata”.


Resta il dubbio se questa corrente attualmente minoritaria, anche se autorevole, del partito avrà la forza di rinnovare il gesto che lo salvò nel 1974 quando sul banco degli accusati sedeva il Presidente in carica, Nixon, e un numero crescente di parlamentari Repubblicani si arresero all’evidenza, ormai in prossimità delle dimissioni del Presidente. Non sarebbe male per il partito uscire dalla casa di Trump prima del crollo, e non sarebbe male per il paese se nel crollo si salvasse la credibilità del sistema bipartitico, che esige una comune lettura della Costituzione e dei principi che consacra.

Franklin

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