Nei sistemi parlamentari in cui le leggi elettorali consentono la rappresentanza di una pluralità di forze politiche, sono necessari governi di coalizione e questi devono fare i conti con il fatto che le piattaforme dei partiti che si alleano fra loro sono diverse e devono riuscire, con maggiore o minore difficoltà, a comporsi.
L’instabilità dei governi italiani e il loro rapido avvicendarsi fra il 1946 e il 1994 è stata ovviamente la conseguenza di questa situazione. E tuttavia le tre grandi coalizioni politiche che si sono succedute nel tempo - il centrismo, il centrosinistra e la solidarietà nazionale -, pur nell’instabilità, si basavano su convergenze politico-programmatiche forti e significative.
Il centrismo univa partiti molto diversi fra loro, che però avevano una forte identità di vedute sulla collocazione internazionale dell’Italia e sul tipo di modello economico da porre al centro della ricostruzione del Paese. Le opposizioni di sinistra avevano una altrettanto forte identità di politica estera e di visione economica: erano quindi due coalizioni con differenze evidenti e significative.
Il centrosinistra nacque, dopo un lungo travaglio interno nei partiti e fra i partiti, sulla base di un comune sentire sulla necessità di inserire, nel modello economico di successo degli anni del centrismo, riforme sociali significative nel campo dell’istruzione, della sanità, del sistema pensionistico e così via.
L’esperienza della solidarietà nazionale ebbe nella lotta contro il terrorismo e nel risanamento economico un cemento comune, ma poggiò anche sul progressivo superamento delle storiche differenze di posizioni di politica estera.
Il paradosso della storia italiana è che i tentativi di riforme elettorali volte a ridurre la frammentazione politica del Paese non solo non hanno prodotto una maggiore stabilità dei governi, ma hanno invece finito per distruggere quella ricerca di una base minima di identità politica su cui fondare le maggioranze.
Iniziò Berlusconi nel 1994, vincendo le elezioni con la formula di una contemporanea alleanza del suo partito con due forze politiche che si dichiaravano incompatibili fra loro, come Alleanza Nazionale e la Lega. Berlusconi propose come istanza comune la rivoluzione liberale, ma questo non fu sufficiente a evitare che quella costruzione anomala si dissolvesse nel giro di pochi mesi. Un’analoga difficoltà accompagnò il centrosinistra che venne tenuto insieme da Romano Prodi facendo riferimento essenzialmente all’europeismo dei partiti che ne facevano parte, ma che si dimostrò un cemento insufficiente rispetto ad altre divergenze che emersero nella coalizione. E, tuttavia, la rivoluzione liberale di Berlusconi e l’europeismo di Prodi erano quantomeno un tentativo di far riferimento a una base comune.
La legislatura in corso rappresenta un unicum. Naturalmente un unicum negativo, anche rispetto alle vicende della cosiddetta seconda Repubblica di Prodi e di Berlusconi. Non vi era mai stata in passato una situazione in cui i partiti che formavano il governo non avevano, né dichiaravano di avere, elementi politici e programmatici comuni. Ed è altrettanto sorprendente che lo stesso presidente del Consiglio abbia presieduto due coalizioni diverse in tutto,
Non c’era alcun elemento comune fra la Lega e i 5 Stelle che formarono la prima coalizione della legislatura sulla base di una giustapposizione di programmi diversi – quota cento per gli uni, il reddito di cittadinanza per gli altri, il Nord per gli uni, il Sud per gli altri –. Era una coalizione nata per non tornare a votare, ma questo non era e non poteva essere un cemento durevole in presenza di una divergenza politica e programmatica talmente profonda da essere accettata per tale. La Tav, la Tap, gli stessi decreti sulla sicurezza, l’hanno rapidamente demolita.
Il cemento della seconda coalizione è stato altrettanto labile. Il principale punto di accordo è stato evitare le elezioni anticipate nella convinzione che esse avrebbero portato, e forse tuttora porterebbero, a una vittoria delle destre. Come nota stamane sul Corriere della Sera Sabino Cassese, questo non è un programma e non è stato neppure preso come base per un programma. Poi è intervenuta la pandemia che ha provocato, come in molti altri Paesi, un rassemblement intorno ai governi, ai quali l’opinione pubblica ha guardato come l’unica ancora di salvezza rispetto a una situazione grave, pericolosa e piena di incognite.
Ora questi due elementi stanno venendo meno. La destra è reduce da sconfitte abbastanza clamorose nelle ultime elezioni regionali e locali – lo ha ammesso senza infingimenti l’on. Giorgetti che parla un linguaggio sempre più distante da quello di Matteo Salvini – ma soprattutto non riesce a trovare una posizione. Non la trova Salvini e non la trova Giorgia Meloni, ambedue incerti se attaccare il governo per l’insufficiente tutela della salute che imporrebbe di chiedere misure più restrittive e quindi alienarsi le simpatie dei piccoli imprenditori e delle cosiddette partite IVA, o se criticare l’eccessiva stretta sulle attività economiche, rischiando così di perdere il consenso della parte della popolazione più preoccupata dalle condizioni sanitarie. Dunque, se la minaccia della destra è minore, viene meno un primo elemento su cui si è costruito il Conte bis.
Ma anche l'andamento della pandemia indebolisce il governo. Quando infatti la maggioranza fa notare che non siamo come a marzo, non descrive solo una minore pressione sulle strutture sanitarie, ma rileva una preoccupazione dell'opinione pubblica che va oltre l'estendersi del contagio ed è concentrata su come il Paese uscirà sul piano economico dalla pandemia. Molti cittadini si chiedono come mai l'azione del governo sia tutta concentrata ancora sulle misure di sostegno a favore delle categorie più esposte e non emerga, invece, una più complessiva e lungimirante politica economica capace di sostenere la ripresa.
Dunque sta venendo meno anche il secondo cemento che univa due forze del tutto disomogenee come il PD e i 5 Stelle. Noi abbiamo scritto qualche giorno fa che con l’Epifania il governo avrebbe incontrato grandi difficoltà a meno che il presidente del Consiglio non fosse stato capace di alzare il profilo del suo esecutivo, rafforzandolo proprio sul terreno dell’economia e del Recovery Fund. Per andare avanti dopo quella data e per giustificare un ulteriore rinvio delle elezioni servirà infatti una novità: se non vi potrà essere una nuova coalizione, forse vi sarà un nuovo governo. Ma talvolta i processi possono anche avere improvvise accelerazioni.
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