Lettera da Washington
Il “ritorno dell’America”, proclamato dalla nuova amministrazione Biden al suo insediamento, ha suscitato fin dall’inizio commenti controversi: le interpretazioni fluttuavano da un richiamo nostalgico ad una America benevola, con una nota di ingenuità (ma gli ingenui non erano gli americani), a un più severo realismo (l’America che torna a guardare fuori dal finestrino è pur sempre l’“America First”).
L’annuncio inatteso dell’accordo Aukus, patto trilaterale tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia per il trasferimento delle tecnologie necessarie per la produzione di sottomarini a propulsione nucleare, muove oggi la bilancia nella direzione della lettura più severa.
Da sempre esistono club privati in seno alle grandi alleanze: la scena internazionale dal secondo dopoguerra in poi non è stata diversa da altri “concerti delle grandi potenze” che hanno generato alleanze a più livelli in cui convergenze politiche e capacità di contribuire materialmente all’autorità comune determinano il grado di condivisione dell’informazione e del supporto operativo. È ben nota la lega dei “Five Eyes”, i “Cinque Occhi” in cui confluiscono i servizi informativi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda per lo scambio di “intelligence”, un pacchetto anglofono di famiglia da cui sembra discendere oggi il gruppo ancora più ristretto evocato da questo accordo, dove Canada e Nuova Zelanda evidentemente non sono apparsi necessari, o si sono chiamati fuori. Dalle informazioni disponibili al momento, l’intesa non prevedrebbe la cessione di armi nucleari, quindi l’Australia non diventerebbe per questo una “potenza nucleare” propriamente detta, bensì armerebbe i battelli in questione con missili di crociera a carica convenzionale, il che resta pur sempre un fattore strategico apprezzabile.
L’accordo non poteva più restare segreto, anche perché comporta la simultanea revoca dell’acquisto di una nuova generazione di sommergibili dalla Francia, che è stata messa di fronte al fatto compiuto. Uno schiaffo, dunque, al maggiore alleato dell’America in Europa che per di più è anche una potenza del Pacifico, presente nella Polinesia e nella Nuova Caledonia.
Vedremo se la prevista, ma non ancora avvenuta, telefonata di Biden a Macron otterrà un ammorbidimento della posizione francese. Quanto al resto dell’Europa, l’offesa arrecata ad un'alleanza di ben duecentoquaranta anni, a poca distanza dalla ruvida esperienza della ritirata da Kabul che ha lasciato un amaro seguito di risentimenti, aggiunge ulteriore sgomento.
La Francia ha reagito subito col tradizionale segnale diplomatico di profonda irritazione, che consiste nel richiamo degli ambasciatori per consultazioni. Tradotto in linguaggio comune, vuol dire: “Come mai non abbiamo visto arrivare questo colpo, qual è l’entità del danno, a chi dobbiamo dare la colpa; dobbiamo ora decidere se valutare ex novo i nostri rapporti col paese in questione per poi trarne le conseguenza per il futuro”. Notare che il rappresentante della Francia a Londra non è stato richiamato: traspare un certo disconoscimento delle velleità britanniche, o forse semplicemente la consapevolezza che la responsabilità di questi sviluppi va ripartita tra Washington e Canberra, e non altrove.
Fin qui il costo politico, che riterrei limitato ai partner esteri; l’americano della strada probabilmente non ci perderà il sonno, e forse anche sorriderà sotto i baffi al pensiero di questi europei sornioni e beffati.
Ma, oltre ad aver suscitato la contrarietà di importanti alleati e la blanda disapprovazione di un certo numero di americani della East Coast, quale sarà l’effetto strategico di questa decisione?
L’America aveva già a suo tempo condiviso con la Gran Bretagna questa stessa tecnologia, adoperata nella costruzione e nelle operazioni della flotta di sommergibili di cui si era dotata nel corso della “guerra fredda” con l’Unione Sovietica; essendo il Regno Unito già una potenza nucleare, si trattava di un contributo diretto all’arsenale nucleare alleato propriamente detto su quella scacchiera. Oggi l’iniziativa è invece mirata a Pechino. Sappiamo che la Cina è una potenza navale e ne conosciamo l’attivismo; questa è dunque una risposta strategica, consigliata dal montare dell’attività cinese nei riguardi di Taiwan (avendo a quanto pare ormai digerito Hong Kong) e dei mari limitrofi, dalla pericolosità incontrollabile della Corea del Nord e dalle limitazioni imposte al Giappone postbellico, al cui futuro si dovrà forse rivolgere lo sguardo. Non va trascurato e non è senza significato che da questo annuncio fino all’apparire dei primi sommergibili nucleari australiani passerà del tempo (anche se fosse compresa nel “pacchetto” la cessione di battelli di seconda mano per consentire senza ritardo l’addestramento degli equipaggi, come spesso avviene).
Cosa sia cambiato nell’equilibrio militare si vedrà nel tempo. Gli Stati Uniti non hanno bisogno ora di una dozzina di nuovi sottomarini nel Pacifico; il messaggio invece è forte e chiaro e vuole essere un segnale mirato, anche a prezzo di seri dispiaceri nella cerchia di storici amici. Per l’Australia, è uno scalino più in su nella gerarchia della potenza navale; per l’America, un rafforzamento militare dell’alleanza finanziato dagli alleati, con il “bonus” di far lavorare i cantieri propri.
Quanto all’annuncio in sé, suggerisce un’ulteriore interpretazione politica. Il problema sul tavolo del Presidente americano, di fronte alla aggressività della Cina, specialmente dopo l’uscita dall’Afghanistan, è quello di manifestare fermezza. Oggi, significa confermare un sostegno per Taiwan, che dal 1980 non ha più un formale patto con gli USA, né è coperta da alcuna esplicita garanzia di intervento somigliante all’art. 5 della NATO. Al tempo stesso, Washington non intende rinunciare alla politica di ambiguità che è servita a tenere a freno sia Pechino che Taipei dopo i tempi di Chiang Kai-shek, per i quarant’anni successivi all’abrogazione del “Mutual Defense Treaty” che formalizzava la protezione americana.
L’annuncio, in questo momento, del patto di difesa Aukus potrebbe essere la risposta e lo strumento per questi complessi obiettivi strategici. Anzitutto perché è un annuncio, non uno scoop giornalistico o il “leak” di qualche intelligence. Non si pensi che a Washington non se ne siano soppesate, ed accettate, le conseguenze. È probabile che la scelta di operare questo strattone alle alleanze europee per far fronte alla sfida con Pechino sia stato visto come un prezzo tollerabile che ribadisce l’obiettivo di rispondere seriamente al riarmo cinese nel Pacifico, senza peraltro tracciare pericolose linee sulla sabbia.
Sono presenti i due elementi dell’azione dimostrativa: massima pubblicità e aperta accettazione del prezzo da pagare. Certamente né a Pechino, né a Taipei, né tantomeno a Parigi questi aspetti possono essere sfuggiti.
Franklin
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