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Presente e futuro del semipresidenzialismo francese

Lettera da Parigi


Nell'avvio del dibattito politico e mediatico attorno all’appuntamento elettorale che, nel maggio 2022, indicherà per il successivo quinquennio l'inquilino dell’Eliseo, campeggia, con l’insistenza di un moto perpetuo e con il risalto di un filo conduttore, l’interrogativo di fondo sull’essenza del semipresidenzialismo instaurato in Francia con la fondazione della Quinta Repubblica e l’adozione della Costituzione gollista o per meglio dire “golliana” del 1958.

Dei poteri riservati al Capo dello Stato e dalla loro evoluzione nel corso degli anni, sino ai costanti ritocchi voluti o auspicati nell’immaginario collettivo della “job description” del candidato ideale per la guida del Paese, si discute spesso con forti accenti dialettici e polemici.

E questo con dovizia di argomenti anche nuovi, che ormai più di un mezzo secolo di avvicendamenti di vertice ha permesso di elaborare ed affinare. Tanto più in un Paese come la Francia in cui l’amore e la conoscenza della propria grande storia, passata e recente, fanno ancora parte, per sua fortuna, del condiviso patrimonio culturale e della coscienza collettiva, per merito soprattutto dell’ “école républicaine” di ogni ordine e grado. Contribuiscono in particolare alla vivacità e all’articolazione di questo dibattito – e lo umanizzano – le valutazioni comparative delle otto figure che si sono finora avvicendate alla suprema magistratura dello Stato.

L’elemento principale in discussione, quasi un acclarato tratto distintivo del semipresidenzialismo agli occhi dei francesi, riposa sulla tacita presunzione che il Presidente della Repubblica rappresenta ed è percepito come una sorta di monarca costituzionale, non soltanto per gli amplissimi poteri a lui riservati in via esclusiva, ma anche per l’assoluta solitudine in cui in definitiva è chiamato ad esercitarli; che viene compatita dai suoi sostenitori e stigmatizzata dai suoi avversari.

Al di là della banalizzazione, si tratta di una differenza di rilievo rispetto ad altri, paragonabili meccanismi costituzionali, primo fra tutti quello degli Stati Uniti, un presidenzialismo corredato da un più articolato dispositivo di “check and balance” che garantisce al tempo stesso efficienza al Governo e garanzia di equilibrio istituzionale.

Questa visione è, come dicevo, in linea di continuità con la storia di un Paese in cui il penultimo sovrano assoluto era ancora acclamato come il “Beneamato” e che di tutti i suoi successori coronati si sbarazzò poi con la ghigliottina o con l’esilio; in una rispondenza corale della pubblica opinione, sia fra coloro che ne esigono un’adeguata incarnazione per meritare di “regnare” all’Eliseo, sia di quelli, invero ancora minoritari, che vorrebbero modificare radicalmente l’essenza stessa del sistema vigente.

Questa semplice costatazione di fatto – al limite forse di una “lapalissiana” semplificazione – può forse non risultare inutile ai tanti improvvisati opinionisti che discettano in astratto del regime semipresidenziale, senza doverosamente ancorarlo alla Storia e alla singola identità e tradizione politica e giuridica delle società in cui lo si vorrebbe applicare: ma sarebbe vano (o, come ebbe a dire in un diverso contesto proprio il Generale de Gaulle, si tradurrebbe in un irrealizzabile “vaste programme”) invocare questa esigenza ai tempi tumultuosi dei social media, delle proposte e dei propositi “usa e getta”, dell’ ormai sistematico, nocumentale ostracismo che ha colpito nell'era tecnologica una meditata attenzione per le lezioni della Magistra Vitae.

Ritengo però che questa premessa possa almeno rappresentare un utile spunto per addentrarci insieme nell’analisi di quanto sta avvenendo e potrà ancora avvenire qui, nell’antivigilia della campagna presidenziale, costituendone non già un marginale elemento di colore (degno più di un tabloid che di una seria disamina analitica) ma una chiave di lettura indispensabile. Basti pensare, a titolo di esempio, alla circostanza che nel gergo mediatico corrente i portafogli principali nell'azione quotidiana di Governo (gli affari esteri ed interni o la difesa e più recentemente l'ambiente e l'energia) vengono tuttora definiti come “dossiers régaliens”, una espressione che sottintende la diretta supervisione del...sovrano: è soprattutto su questi temi prioritari che viene di volta in volta giudicato il suo operato.

Senza ancora addentrarsi nell'approfondimento delle prime candidature già palesatesi con dichiarazioni formali, ci si dedica qui ancora prioritariamente, rispetto al consueto “toto-nomi”, a sviscerare in astratto i meriti e i demeriti del “presidente monarca”.

Certo, non mancano i primi commenti ed approfondimenti sui nomi che già vanno circolando e che risuonano, in alcuni casi, come familiari anche oltre-confine. A destra è comparsa la prorompente (ma quanto duratura?) discesa in campo di Xavier Bertrand, già effimero segretario del suo partito, più volte ministro con Sarkozy ed attuale presidente della Regione Haut de France (dopo una confrontazione vincente con il Fronte Nazionale). Bertrand si pone nel segno del gollismo tradizionale e del centro destra moderato, incarnato via via dal RPR chiracchiano, dall'Ump ed infine da “Les Republicains” nell'era di Sarkozy: la strada è ancora lunga e nell'arcipelago delle formazioni liberal-conservatrici è appena iniziato il tormentato processo di selezione (e di lotte non di rado fratricide) che postula la designazione di un federatore. A questo proposito, viene menzionato con insistenza il nome di Michel Barnier, riconosciuto forse più all'estero che in patria per i suoi meriti di tenace negoziatore della Brexit; e, tanto per non dimenticare la sempre più rilevante questione della parità di genere, quello di Valérie Pecresse, più nota in casa che fuori, anche per l'attuale incarico rivestito ad oggi di Presidente della Regione Ile de France.

Sono poi già state annunciate le ormai immancabili presenze di Marine Le Pen, che conferma di volersi presentare per la terza volta, ma mantiene le carte ancora coperte sui leit motiv (vecchi e nuovi) cui si prefigge di impostare la propria campagna; e quella del tribuno del sovranismo di sinistra, Jean Luc Mélenchon, colui che imperniò la propria propaganda proprio sul tema del superamento dell'attuale semipresidenzialismo in vista del passaggio ad una agognata Sesta Repubblica: una tesi che sembrò, dopo la sconfitta di misura al primo turno nel 2017, tornare a sedurre i populisti impegnati per la scelta di una non meglio definita democrazia diretta, con la deriva plebiscitaria cavalcata dai Gilets Jaunes; cui lo stesso Mélenchon non tralasciò di aderire ergendosi a loro difensore e portavoce – non sempre gradito e riconosciuto - nelle piazze e nel “Palazzo”.

La situazione è ancora più confusa e statica a sinistra: manca certamente, tanto negli schieramenti tradizionali (come l'ectoplasma socialista) quanto nei nuovi movimenti ambientalisti, qualsiasi figura di riferimento che possa anche solo lontanamente ricordare la tenacia, il carisma e l'abilità manovriera con i quali Mitterrand riuscì a portare a compimento l'opera di federazione della Gauche che si era prefisso. Non a caso, l'infinitesimale Partito Comunista si è già affrettato - quasi a decretare preliminarmente l'impraticabilità di una nuova “Union de la Gauche” - la candidatura di bandiera del suo Segretario, Roussel.

Se la cornice istituzionale rimane saldamente quella della Quinta Repubblica - scossa soltanto da qualche sommovimento carsico che fatica a trovare sbocchi verso esplicitate ed articolate iniziative – il quadro politico di insieme è invece radicalmente trasformato. La stessa “rivoluzione” di “En Marche” (con il suo combinato disposto di rottamazioni e di anelito riformista) si è fermata a metà del guado: i partiti classici sono rovinati sotto le macerie delle loro strutture arcaiche; i movimenti novatori non sono pervenuti a consolidarsi come loro sostituti, dandosi stabili e radicati assetti organizzativi, né al centro né a livello locale. È forse questa una delle ragioni di fondo dell'acceso dibattito di questi giorni su una ipotesi di rinvio delle prossime regionali di giugno, l'ultimo grande test su scala nazionale prima delle presidenziali, che l'Esecutivo (quindi, ancora una volta il Presidente) si è risolto (si dice non del tutto a cuor leggero) a troncare, con la sostanziale conferma della data prevista originariamente. Ad evitare, soprattutto, che si estendessero al campo della politica in senso stretto le accuse generalizzate di “sospensione della democrazia” vociferate da più parti per effetto delle misure restrittive adottate a fronte della pandemia, sbrigativamente tacciate da molti come “liberticide”.

In buona sostanza, in mancanza di partiti robusti, di nuovi movimenti radicati al centro e sul territorio, di forti identificazioni ideologiche, la partita dell'Eliseo, come sembra configurarsi oggi, si potrebbe giocare attorno ad un inedito faccia a faccia fra un potere esecutivo che gli attacchi e le polemiche seriali sembrano voler mettere alle corde ed una pubblica opinione anch'essa frastornata, profondamente instabile ed insicura, ma al tempo stesso resa più potente che mai dalla liquidità del nuovo modo di vivere; sprovvista come è, in Francia forse più ancora che in altri Paesi, di una efficace sintesi moderatrice dei corpi intermedi, in un clima generale di tensione e di fibrillazioni elettriche.

Nell'ipotesi, dalla maggioranza dei commentatori data quasi per scontata, di una ricandidatura del giovane Presidente, ma, osservo, non ancora del tutto acquisita (Emmanuel Macron ci ha del resto abituati alle sorprese ed ai colpi di scena inaspettati), la crisi sanitaria – anche se sarà almeno in parte superata, ma certamente non dimenticata – dominerà la campagna, con i suoi molteplici risvolti economici, sociali, persino internazionali, e il suo carico di conseguenze sulla stessa psicologia collettiva. Si tradurrà quindi, più ancora che in una competizione fra contrapposti candidati, in un dialogo in crescendo continuato e conflittuale fra l' “uomo solo” al comando ed un elettorato agitato, ansioso, intransigente, fortemente influenzato da una informazione onnipresente, ossessiva e drammatizzante. Nella percezione popolare e nella narrazione dei media, il consuntivo che Macron presenterà in questo confronto diretto sembra annoverare più ombre che luci: nei confronti di un uditorio scettico e spesso mal disposto starà a lui illustrare gli oggettivi avanzamenti compiuti nel settore della sicurezza (con l'apposita legge sulla “sécurité globale” approvata in via definitiva ed ancor più quella in avanzata lettura parlamentare, denominata “sul separatismo”, che prende finalmente di mira l'avversario dell'islamismo politico, con il recentissimo, rilevante emendamento di iniziativa governativa a difesa della scuola contro ogni ingerenza confessionale); starà a lui rivendicare la più significativa delle iniziative nazionali per il sostegno ed il rilancio dell'economia, per consistenza, tempestività ed efficacia (oltre cento miliardi che hanno contenuto la pur paventata esplosione delle piazze); starà a lui ricollocare nella giusta luce lo straordinario passo in avanti compiuto dall'Europa (come diceva Jean Monnet sempre pronta ad avanzare di fronte alle crisi) con la travagliata ma “rivoluzionaria” approvazione del più importante “pacchetto” di misure finanziarie di sostegno alle economie dell'Unione mai varato dalla sua fondazione: un successo personale di Macron ed un progresso per la realizzazione della sua “nuova idea di Europa”, attraverso il riequilibrio e l'allargamento dell'asse originario con Berlino.

Le prime anticipazioni di quel che ci attende si fondano anch'esse sulla peculiarità del semipresidenzialismo francese, ricorrendo stavolta al precedente storico della grande avventura napoleonica. Nel folgorante percorso di Emmanuel Macron vengono ravvisate similitudini, più che con l'era assolutista dei Borboni e quella costituzionale degli Orleans, con il “bonapartismo”, specie quello prima maniera del Consolato, incluso il suo avvio con il Colpo di Stato del Brumaio e l'accesso “per effrazione” di Macron all'Eliseo più di due secoli dopo: si evoca, menzionando anche la giovane età, la prestanza ed il carisma del futuro imperatore, la assoluta primazia del Premier Consul, mentre gli altri, dimenticati due triumviri rimangono relegati in secondo piano: a tal punto che taluni autorevoli commentatori si spingono fino ad identificare nelle funzioni di secondo Console il Primo Ministro Jean Castex, e prima di lui Edouard Philippe, con funzioni di coordinamento esecutivo e di “copertura” (una sorta di “parafulmine”) del Presidente nei confronti della pubblica opinione; mentre il terzo sarebbe oggi incarnato dal Segretario Generale dell'Eliseo, figura chiave del sistema e del suo funzionamento, che nell'ombra tira le fila della tela strategica ideata dal Capo.

Del resto, fu lo stesso de Gaulle che nel commentare con uno dei suoi confidenti il carattere monarchico della Quinta Repubblica, parafrasò il Re Sole e troncò ogni discussione sul ruolo ambiguo che, secondo alcuni, rivestiva la figura del Primo Ministro nel progetto della Costituzione del 1958, affermando lapidariamente: “il Governo, sono io”.


l'Abate Galiani

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