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Presidenziali, tensioni e sfide aspettando Macron

Lettera da Parigi


Tutti i candidati dell’opposizione mordono il freno alla vigilia della volata finale negli ultimi sessanta giorni di campagna: esitano in particolare fra un’entrata in materia più sostanziale e approfondita – ora che le priorità avanzate dai francesi in molteplici sondaggi di opinione sembrano precisarsi – e, in alternativa, l’esigenza di non scoprire ancora tutte le proprie carte prima che sia ufficialmente noto il gioco del loro comune avversario, Emmanuel Macron.


La tensione attorno alla formalizzazione della candidatura si fa sempre più palpabile e – di fronte ai perduranti temporeggiamenti del presidente – si traduce in attacchi anche virulenti al suo attendismo, che di volta in volta viene tacciato di sprezzante alterigia nei confronti del popolo francese, di insicurezza propria dell’inesperienza, di eccessiva fiducia in un margine di confortevole vantaggio, quantomeno in vista del primo turno del 10 aprile.


Lo si sfida ormai apertamente a non nascondersi dietro il complesso sdoppiamento fra il proseguimento sereno ed imparziale del suo alto mandato e l’avvio di una battaglia senza quartiere, quale difensore del suo progetto e delle sue idee per il futuro della Francia e dell’Europa, costretto a “sporcarsi le mani” sul terreno e sui media.


Si anticipano anzi, per complicargli ulteriormente la vita, capziose argomentazioni circa le modalità di svolgimento della sua personale implicazione nella campagna, escludendo per esempio che egli possa tenersi al riparo da una sequela di dibattiti televisivi, nella consolidata tradizione degli ultimi decenni, da pari a pari con tutti i suoi rivali fin dal primo turno. Si tralascia naturalmente di evidenziare (e di riconoscere), come fanno invece molti commentatori, che il Presidente in carica non può essere esposto all’assalto congiunto sui teleschermi di una decina di sfidanti, divisi fra loro su quasi tutto ma che troverebbero la sintesi in un impari “tutti contro uno”. E questo in una sorta di gioco al massacro senza precedenti nel quale rovesciare, con il favore dello stringato contingentamento dei tempi di parola (e soprattutto di replica), tutte le rivendicazioni e le critiche della multiforme e frammentata costellazione dell’ “anti-macronismo”, non si sa se maggioritaria ma certamente non irrilevante quanto ai numeri. Tuttavia il rischio per Macron è anche quello di sottrarvisi e di venir perciò automaticamente (anche se irragionevolmente) tacciato di pusillanime codardia, agitata come una “muleta” da corrida.

Né soccorrono, al riguardo, precedenti storici attendibili, malgrado la sbandierata fedeltà al “calco” istituzionale, alla tradizione ed ai modelli della Quinta Repubblica, qui profondamente sentita ma soggetta a una interpretazione libera, fondata su una solida cultura politica ma anche soggetta a ridondanti forzature storicistiche spesso strumentali.


Tutti convengono che il problema della scelta cruciale del momento più propizio per candidarsi conosce per l’incumbent il solo limite “ad quem” del 4 marzo, la data capestro fissata per il completamento di tutte le procedure propedeutiche all’inizio della campagna ufficiale (quest’anno destinata a durare due settimane in meno per l’anticipazione del primo turno al 10 aprile): rimane aperto il dilemma irrisolto dell’opportunità di fare prima o poi breccia nella coscienza degli elettori e di avere di fronte a sé il tempo necessario ad illustrare il proprio progetto ed a raccogliere il consenso più largo possibile, ben al di là di quello zoccolo duro di partenza dei sostenitori già convinti (che corrispondono negli attuali sondaggi alle dichiarate intenzioni di voto).


Macron esita ancora; lo si raffigura ancora indeciso fra il modello di François Mitterrand, dichiaratosi praticamente in zona Cesarini per permeare fino all’ultimo l’elettorato della sua immagine di “padre nobile” super-partes, protettore ed affidabile, e quello consimile di Valéry Giscard d’Estaing che sottovalutò invece la dimensione e la cifra della crescente ostilità che gli portava, sempre più apertamente, una parte della popolazione, in ragione della sua alterigia e della sua condiscendente autostima.


Giscard fu sconfitto, mentre Mitterrand fu incoronato una seconda volta: e non sfugge certo a Macron che l’insofferenza accumulata nei suoi confronti rassomiglia più da vicino a quella – popolare, protestataria, epidermica ma impermeabile ad ogni anche paziente tentativo di dialogo e di convincimento - di cui patì il primo, mentre Mitterrand riuscì con il suo machiavellico intuito a confinare l’ostilità pur esistente nei suoi confronti nelle segrete stanze della politica e del “palazzo”. Quanto al terzo, e più recente esempio, quello di Sarkozy, rimbalzano quotidianamente nelle esortazioni a candidarsi di quasi tutti gli opinionisti le parole amare pronunciate dallo stesso Sarkozy, che ha apertamente ammesso a posteriori di aver sbagliato nel 2007 a temporeggiare troppo a fronte dell’ascesa di Hollande, nel rimpianto di non aver disposto di quindici giorni in più di campagna. Gli sarebbero stati probabilmente sufficienti, a suo dire, per rovesciare il pronostico.


Dal canto suo, Macron procede a piccoli passi, lanciando segnali spesso subliminali e lasciando ai suoi fedelissimi il compito – sempre più ingrato – di mantenere viva l’attenzione e la fiducia degli elettori, messe alla prova dalle lusinghe e dalla sfide delle parti avverse: né è possibile distinguere sfumature e stili differenziati, ché tutti i candidati al primo turno, dai populisti “rossi” (Mélenchon) e “neri” (Le Pen e Zemmour), sino ai solitamente più misurati Jadot e Pécresse, si conformano a toni ultimativi, accesi sino ad essere ingiuriosi, nei confronti di un loro rivale che rimane pur sempre il Capo dello Stato in carica, in un clima ricco di intemperanze verbali e di accuse incrociate degno veramente di una “plaza de toros”.


Avvertendo forse che il cielo si va annuvolando, il Presidente si è spinto più oltre in questi giorni, dicendosi consapevole dell’impazienza popolare – oltre che politica – ma ricordando come l’impegno principale in Patria rimane per lui un chiaro superamento della crisi pandemica, con la conferma della sostenibilità delle più morbide misure anti-Covid, entrate in vigore gradualmente a partire da febbraio.

Altro confine temporale esplicitamente indicato dal Presidente è quello del rasserenamento dell’orizzonte internazionale, con il combinato disposto della minaccia russa alla frontiera ucraina e dello smacco subìto da Parigi in Mali, con l’espulsione dell’ambasciatore di Francia da parte di una giunta militare sempre più incline ad adottare una linea oltranzista; con un rischio palpabile di escalation in un Paese in cui sono ancora schierate le truppe francesi di Barkhane e dove non sarebbe del tutto estranea la strategia destabilizzatrice di Vladimir Putin e dei mercenari del manipolo Wagner. In quest’ottica si colloca l’ipotesi dell’annunciata (ma ancora non calendarizzata) visita di Emmanuel Macron a Mosca, con il doppio cappello di Capo dell’esecutivo francese e di Presidente di turno del Consiglio Europeo.


I segnali che si moltiplicano sul terreno e sui media rimangono ondivaghi e talvolta contraddittori: è significativo al riguardo lo slogan adottato dalla “cripto-campagna” dei giovani per Macron già in corso ovunque in Francia. Si sottolinea come la parola d’ordine “Avec vous” ricordi molto la leggendaria “Génération Mitterrand” del 1988, con la differenza non marginale di non includere il nome dell’attuale Presidente. Ci si sofferma con divertito stupore sulla prima convalida dei patrocini a favore di ciascun candidato da parte della Corte Costituzionale in un procedimento che si concluderà solo i primi di marzo: e si registra che il primo in graduatoria per numero di adesioni è il solo che non è ancora candidato, appunto il Presidente, con sostegni di personalità di peso come i sindaci di Nizza e di Tolone.


Il clima che regna all’Eliseo è febbrile e non sembra davvero quello che circonda un “favorito”: si racconta anzi che lo stesso Emmanuel Macron, non per questo meno animato dall’ottimismo della volontà e meno deciso a battersi risolutamente per la riconferma, avrebbe recentemente esortato i suoi a non dare per scontata la vittoria ed anzi a non escludere a priori l’ipotesi di un epilogo infausto.


l’Abate Galiani

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