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Recovery Fund, ora serve un Fondo Investimenti e Occupazione

C’è un’esperienza lontana nel tempo da cui il Governo potrebbe trarre qualche ispirazione in questo momento in cui si comincia a pensare ai programmi di rilancio dell’economia dopo il coronavirus. Nel 1981-82 il governo italiano stanziò in bilancio un Fondo di circa 2000 miliardi di lire destinato al finanziamento di programmi di investimento e stabilì che a quel Fondo – denominato FIO, Fondo Investimenti e Occupazione - potessero chiedere di ricorrere tutte le amministrazioni nazionali e regionali presentando dei programmi di investimento nei settori di loro interesse e competenza. Si stabilì che il Fondo avrebbe finanziato integralmente i programmi accettati, in modo da evitare il tradizionale sistema dei finanziamenti parziali di programmi di solito si trascinano per anni e anni prima di essere completati. Naturalmente l’idea era che, sulla base dell’esperienza acquisita, si sarebbero destinati fondi crescenti al FIO fino a far cadere sotto questa procedura buona parte dell’attività di investimento pubblico.

Per procedere alla selezione degli investimenti da finanziare fra tutti quelli presentati dalle varie amministrazioni aventi diritto, venne costituito un Nucleo per la Valutazione degli Investimenti cui venne affidato il compito di calcolare, sulla base di criteri di valutazione adottati preventivamente dal CIPE, costi e benefici di ciascun progetto e stilare una graduatoria dei progetti finanziabili dalle risorse del Fondo. Per qualche tempo l’esperimento funzionò, poi venne travolto dal desiderio delle forze politiche di poter decidere sulla allocazione delle risorse in base al proprio potere politico, piuttosto che in base al contributo alla crescita economica che i singoli progetti avrebbero potuto generare.

Secondo Il Commento Politico, il Governo farebbe bene a riflettere a fondo su quella esperienza in vista dell’arrivo, che si spera imminente, dei fondi europei previsti dal Recovery Fund. Se arrivassero 100 miliardi di euro, come si è letto, che è una cifra pari a quasi il 6 per cento del PIL, e se si ipotizzasse un moltiplicatore di 2, come è lecito immaginare per progetti ben studiati, l’Italia potrebbe più che recuperare la perdita di reddito nazionale stimata per quest’anno come effetto del coronavirus. Ed è ovvio che, se l’azione pubblica determinasse una crescita del PIL dell’ordine del 10 per cento, l’effetto trainante che questo avrebbe sugli investimenti privati sarebbe assicurato. L’Italia ha dunque l’occasione storica di uscire dalla stagnazione degli ultimi venti anni. Naturalmente a condizione di predisporre le cose per bene, con criteri di produttività e di efficienza, dando alla politica il suo giusto ruolo nella definizione dei criteri di scelta, ma sottraendo ad essa la discrezionalità sulle singole decisioni di investimento.

Per farlo bisognerebbe individuare al più presto un centro motore del progetto del Recovery Fund che sia insieme interlocutore dell’Europa e delle varie esigenze poste dalle amministrazioni centrali e regionali; se ne dovrebbe definire con chiarezza il posto nel Governo e dargli gli strumenti per condurre l’analisi dell’efficacia dei vari progetti prospettati.

Le forze politiche temono molto la condizionalità dei finanziamenti europei. Per questo tendono a diffidare del MES e a preferire il Recovery Fund. Ma su quest’ultimo, se non impostiamo subito un piano e insieme il suo manovratore, rischiamo un fallimento assai grave. È bene, dunque, pensarci a fondo e fare le cose per tempo.

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