La pandemia da Coronavirus ha messo in evidenza una serie di criticità frutto di anni di trasformazione del nostro sistema sanitario. L’accumularsi di errori politici e culturali ha segnato l’evolversi dell’emergenza, la vita e la morte di migliaia di italiani. Il prezzo più alto è stato pagato proprio da quelle regioni che, in virtù dell’autonomia definita dalla modifica del titolo V della Costituzione, più di altre si erano spinte nell’indirizzare l’organizzazione dell’assistenza verso le patologie croniche più rilevanti, concentrando nelle grosse strutture ospedaliere attrezzature e risorse umane, e affidando alla gestione dei privati lo sviluppo di centri di assoluta eccellenza, altamente remunerativi, ma non in grado di fare fronte a eventuali emergenze come quella appena attraversata. Tutto questo a scapito dell’assistenza sul territorio, con il taglio indiscriminato delle strutture più periferiche, della rete dei medici di medicina generale e trascurando qualsiasi organizzazione di cura domiciliare dei pazienti fragili; tutte cose che avrebbero permesso di intercettare con tempestività, e precocemente, il dilagare dell’infezione e ridurre drasticamente la pressione sulle strutture ospedaliere i cui pronto soccorsi si sono rapidamente trasformati in aree di facilitazione del contagio, per pazienti e operatori sanitari. La progressiva burocratizzazione del sistema ha inoltre affidato le decisioni strategiche ad amministratori ottusi e incompetenti quanto supponenti, scelti sulla mera base della fedeltà al politico di turno e al suo partito, e che hanno non poco contribuito a generare il caos evidente a tutti.
L’uscita dal momento di massima pressione e l’avvio della normalizzazione del paese impongono ora di trarre consiglio dalla dura lezione subita e ripensare il sistema sanitario in modo diverso, più agile, che favorisca il rafforzamento delle competenze nella filiera decisionale e più vicino ai cittadini, le cui esigenze, soprattutto con l’aumentare della popolazione anziana, non possono essere risolte dai grandi ospedali o dalle efficienti cliniche specialistiche, ma richiedono risposte e terapie più semplici e somministrabili in prossimità o a domicilio. La tecnologia e la miniaturizzazione delle strumentazioni elettroniche consentono inoltre di portare al domicilio del paziente molti strumenti diagnostici in grado di valutare correttamente la gravità e l’evolversi della patologia, con evidente guadagno anche economico rispetto a costosi quanto, spesso, inutili ricoveri ospedalieri, magari passando da dipartimenti di emergenza sempre più intasati.
E’ apparso evidente come tra le conseguenze della globalizzazione, oltre alla facilità di scambi commerciali e la stretta interconnessione delle produzioni industriali tra le diverse zone del mondo, anche la trasmissione di agenti patogeni aggressivi, e finora considerati lontani dai paesi più ricchi e attrezzati da un punto di vista igienico sanitario e confinati nelle aree più depresse del pianeta, sia divenuta più facile e rapida. Negli ultimi anni, molte erano state le avvisaglie di una possibile diffusione pandemica, dalla SARS all’influenza aviaria, fortunatamente abortite, ma nessuno, anche chi era in possesso di tutti gli strumenti culturali per farlo, ha saputo leggerle e interpretarle. Il Covid, dunque, è giunto inatteso solo per la cecità di chi avrebbe dovuto capire come non sia possibile confinare per sempre altrove qualcosa che per sua stessa natura è incontrollabile e che, se un tempo si spostava con la lentezza dei vascelli a vela, oggi si diffonde con velocità supersonica. La mancata comprensione dei segni di tempesta che si formavano all’orizzonte, ha fatto sì che nulla sia stato fatto per approntare le adeguate contromisure. Ora si paventa una seconda ondata in autunno, ovvero nel giro di quattro-cinque mesi dalle prime riaperture. Non sappiamo se ciò avverrà con sicurezza e non sappiamo quale aggressività questa seconda ondata potrebbe avere. Il precedente della influenza spagnola non è però di buon auspicio in questo senso. C’è comunque il tempo per ripensare criticamente a tutti gli errori di questi mesi, dai colpevoli trasferimenti di pazienti in convalescenza da Covid, ma non ancora sterili, tra i pazienti fragili delle RSA che hanno finito di pagare il prezzo più alto, alla farsa dei sistemi di protezione individuale mancanti per colpevole inerzia iniziale e divenuti oggetto di truffe ai danni di amministrazioni quantomeno incompetenti e approssimativi, alla frettolosa distribuzione orizzontale dei pazienti Covid nei diversi ospedali, con la tragica conseguenza di trascurare, fra le altre, le normali gravi patologie oncologiche e cardiovascolari, che ha portato ad una difficoltà nella somministrazione di terapie salvavita. Emblematica in questo senso la denuncia della Società Italiana di Cardiologia che stima un aumento del 300% delle morti per infarto miocardico. Occorre, dunque, mantenere alta la guardia, non smantellare i presidi di rianimazione frettolosamente approntati ma mantenerli in piena efficienza, fornire alla medicina del territorio tutti gli strumenti in grado di intercettare e trattare precocemente gli infetti, prevenendo il più possibile l’insorgenza delle gravi complicanze legate alla furiosa infiammazione che si instaura come conseguenza dell’infezione e proteggendo adeguatamente gli operatori sanitari. Occorre inoltre pensare ad una migliore distribuzione verticale dei malati Covid in strutture dedicate, dotate di adeguati percorsi sporco-pulito, e separate dai reparti di degenza normale dove potere continuare a trattare in sicurezza le gravi e debilitanti patologie oncologiche e degenerative. Questa organizzazione deve diventare comunque la norma, anche al di là della pandemia attuale, a meno che non si voglia tornare ad una rigida separazione dei territori, riportando il mondo indietro di decenni e rinunciando ai vantaggi, non solo economici ma soprattutto di libertà individuale, che sono stati conquistati attraverso globalizzazione e apertura delle frontiere.
Prof. Cesare Greco
P.A. Cardiologia
La Sapienza - Roma
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