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Sanzioni che pesano

Il Comunicato del G7 dello scorso 11 marzo è stato forse sottovalutato nelle sue implicazioni di lungo periodo. Segna un particolare punto (“di non ritorno” sarebbe dir troppo, ma certamente molto significativo) nella storia delle relazioni economiche internazionali dal dopoguerra a oggi. Dopo una breve premessa, in cui si afferma che “Putin e il suo regime sono responsabili” dell’aggressione (con una implicita ma pur importante distinzione tra Putin e il popolo russo), cui si aggiunge che il “mondo dovrebbe unirsi” per chiedere a Putin di fermarsi (anche qui con un riferimento implicito: alla Cina e non solo), il documento elenca sette punti. Di questi, i primi due appaiono di particolare rilievo, anche in prospettiva storica.


Il primo punto riguarda il proposito di formare una coalizione, nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del Commercio, per revocare alla Federazione russa lo status della “nazione più favorita”, il principio su cui è stata edificata l’architettura multilaterale degli scambi dal GATT-General Agreement of Tariffs and Trade del 1947 (di cui non a caso costituisce l’art. 1) e che ha favorito una sempre più ampia liberalizzazione del commercio mondiale fino a condurre, nel 1995, alla creazione del WTO-World Trade Organization, di cui la Federazione russa è diventata il 156° membro nel 2012 (i membri sono oggi 164). Per inciso, il principio in oggetto è centrale anche in analoghi accordi, dal GATS (art. 2) al TRIPS (art. 4).

Il secondo punto formula l’obiettivo di ostacolare, nel contesto della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (nonché della BERS-Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo), ogni forma di finanziamento dell’economia russa. La Banca mondiale e il Fondo – che contano 190 membri – sono le cosiddette istituzioni di Bretton Woods, create nel 1944 nella località omonima del New Hampshire, negli Stati Uniti, come architrave finanziaria e monetaria della cooperazione internazionale del dopoguerra, e di cui la Federazione Russa è membro dal 1992 (l’Unione Sovietica partecipò alla conferenza del 1944 ma non ne firmò gli accordi). In questo caso, si porta indietro non di dieci ma di trent’anni l’orologio della Storia.

Qualora questi proponimenti dovessero realizzarsi, la Federazione Russa sarebbe estromessa non soltanto dal sistema multilaterale degli scambi, limitatamente ad alcuni prodotti-chiave per i quali sarebbe possibile applicare dazi senza comunicazione preventiva, ma anche dall’accesso ai canali e agli strumenti di finanziamento garantiti dalle istituzioni finanziarie internazionali, la Banca e il Fondo. Cosa resta dunque a Putin? Cosa c’è fuori dalla Banca, dal Fondo, dal WTO, al di là dei rapporti bilaterali, che pure non sono poca cosa? Ci sono due istituzioni nuove, non assimilabili né per capacità e né per funzione, a quelle di Bretton Woods, ma la cui nascita nel 2014 era stata considerata, non senza enfasi, come alternativa a quelle.


Si tratta della AIIB-Asian Infrastructure and Investment Bank, di cui la Cina detiene la quota di maggioranza relativa, seguita da Russia e India (ne fanno parte paesi europei, tra cui Francia, Germania e Italia), e la New Development Bank, la banca di sviluppo dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), ciascuno dei quali detiene una quota pari al 19.42% (originariamente 20%), ai quali si sono aggiunti nel 2021 Bangladesh (1.83%) ed Emirati Arabi Uniti (1.08%), mentre sono in via di accesso Egitto e Uruguay. Tra i paesi BRICS esiste anche un accordo, sempre del 2014, il Contingent Reserve Arrangement (CRA), per la liquidità a breve termine. Il capitale è di 100 miliardi (41 Cina, 18 per Brasile, India e Russia, 4 Sud Africa) e ciascun paese ha diritto ad accedere a facility pari alla metà (la Cina) o al doppio del capitale versato. Sia la AIIB sia la New Development Bank hanno annunciato la sospensione di nuovi prestiti alla Russia.

Putin si è forse infilato in un vicolo cieco, consegnandosi nel medio termine alla Cina. Ma la Cina si lascerà abbracciare da Putin? O sarà come l’abbraccio di uno solo? In ogni caso, la strada per Kiev passa da Pechino. Non a caso ci si interroga su un decoupling tra Occidente e Oriente. Ma il mondo è più articolato di così, lo è anche lungo linee Sud-Sud e a queste la Cina ha negli anni portato speciale attenzione (la prima base militare cinese all’estero è, dal 2017, a Gibuti). E dunque, alla fine, il mondo sarà retto da una partita a tre (Cina, Europa, Stati Uniti) o a quattro (Russia inclusa)? E i quattro giocheranno un torneo singolo (in cui ciascuno va per sé) o un doppio (rigidamente due da una parte e due dall’altra della “cortina di bambù”?).

Forse, ancora per un po’, entrambe le cose. Questo vale soprattutto per la posizione della Cina nell’economia mondiale: il suo interscambio con la Russia è di 150 miliardi, mentre quello con gli Stati Uniti e l’Europa è di 750 miliardi e 820 miliardi. L’ascesa della Cina, per i suoi tempi lunghi, richiede forse non la globalizzazione di ieri, ma almeno pezzi della sua infrastruttura, specie monetaria e finanziaria. Di qui la accelerazione sull’internazionalizzazione dello yuan e sullo yuan digitale. Ma l’idea stessa di uno yuan come moneta dei pagamenti internazionali e moneta di riserva di una parte del mondo richiederà comunque una certa disciplina finanziaria e una stabilità politica che mal si conciliano con le avventure. Oppure no?


Giovanni Farese

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