Non c’è relazione di causa-effetto tra il vaccino AstraZeneca e i casi di trombosi della scorsa settimana: lo ha dichiarato l’Ema e dunque le vaccinazioni in Europa sono riprese. Ma la gente ha paura, molti iscritti nelle liste delle somministrazioni in corso non si presentano all’appuntamento, rimandano o rinunciano definitivamente all’immunizzazione. Non sono i NO-vax, pregiudizialmente schierati contro il siero che combatterebbe il virus inoculando dosi di malattia in persone in salute; e nemmeno condividono, molti non conoscono, le squinternate teorie di chi denuncia un piano delle Big Tech e delle alte sfere del potere politico-finanziario per esercitare una dittatura sanitaria con l’obbligo della vaccinazione come arma più sofisticata di sottomissione dei popoli. Sono invece centinaia, migliaia di persone che stanno ora dicendo che non si fidano.
C’è molto da riflettere sull’onda emotiva che ha investito la popolazione e la conseguente inevitabile risposta dei quattordici governi europei che hanno decretato lo stop alla somministrazione dei vaccini. A causa di un numero esiguo di malori e di decessi che suscitano profonda costernazione ma non costituiscono, lo conferma il giudizio degli esperti, prove della pericolosità del farmaco.
Il tema, allora, è la sfiducia: quanto ha pesato sull’affaire AstraZeneca la sfiducia nei confronti della scienza. Nel corso del Novecento le scienze e le tecnologie hanno fatto passi da gigante verso traguardi impensabili, la stessa produzione del vaccino anti-Covid è uno dei risultati che mai si sarebbe immaginato di poter raggiungere in così breve tempo. Eppure, chissà quanto consapevolmente, popoli e governi dimostrano oggi di non fidarsi.
Quando si è interrotta la comunicazione fra il sapere scientifico e la disponibilità della gente a dare ad esso credito? È vero che proprio nei Paesi democratici che più godono dei vantaggi derivati dalle scoperte scientifiche è via via cresciuto un sentimento avverso, guidato da un malinteso richiamo alla difesa dell’ambiente, del clima, della salute, che sarebbero minacciati dalla sperimentazione e dallo sfruttamento delle risorse naturali. Così come è vero che le ricerche nel campo delle biotecnologie e della genetica continuano, inevitabilmente, a forzare il confine dei valori etici e sfidano i valori religiosi dei credenti.
C’è stata nel secolo scorso, e forse c’è ancora, una tendenza degli scienziati all’isolamento, all’esercizio accademico del loro sapere e delle loro scoperte. D’altra parte è mancata ai mezzi di informazione e alla divulgazione letteraria la capacità di raccontare le ragioni e i successi del progresso scientifico e tecnologico. Viene in mente il celebre saggio Le due culture di Charles Percy Snow che nel 1959 si chiedeva, lui fisico e letterato, se la cultura umanistica e quella scientifica avrebbero mai saputo dialogare. Un libro troppo dimenticato, se oggi si dà per scontato che la distanza fra le discipline scientifiche e quelle umanistiche presente per secoli, dopo l’Umanesimo, nella civiltà occidentale, sia stata ormai del tutto annullata. Troppo spesso assistiamo, piuttosto, a manifestazioni irrazionali di protesta contro i progetti o i risultati dell’ultima sperimentazione o dell’ultima “diavoleria ipertecnologica”. Sdegni che non colgono la spinta propulsiva che la corsa alla scoperta scientifica e all’innovazione hanno dato al cammino della civiltà, al progresso delle nostre società e delle nostre economie. Quanto povero di prospettive sarebbe il nostro futuro se questi processi fossero costretti a rallentare.
Certo gli eccessi della scienza, la competizione, i colossali interessi economici, l’esaltazione del successo, la follia; la suprema follia del nucleare e delle guerre batteriologiche. Il progresso è anche tutto questo, e infatti da tutto questo le democrazie mature devono saper difendere i cittadini. Non mancano gli apparati normativi, le procedure, i principi precauzionali, che vanno applicati con rigore e intransigenza.
In questi disperati giorni di pandemia la percezione del pericolo genera incertezza e paura. I timori, le esitazioni della gente di fronte al rischio sono sempre legittimi e comprensibili. La comunità scientifica con il suo lavoro e lo Stato, nella sua funzione di guida, possono far sì che l’ansia non si trasformi in diffidenza, non degeneri nell’ostilità e nel sonno della ragione.
Silvia Di Bartolomei
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