Lettera da Washington
L’ 11 marzo del 2020, giusto un anno fa, l’Organizzazione mondiale della sanità (WHO), ha confermato ufficialmente che ci trovavamo davanti a una pandemia. Nelle sei settimane successive si contano ufficialmente negli Stati Uniti già un migliaio di decessi, i primi di una ecatombe. Nel caos di quei mesi, più di 26 milioni di americani si aggiungono alla percentuale dei disoccupati, che all’apice raggiungerà il 15%. Il 27 marzo Trump firma il primo stanziamento congiunturale di 2 trilioni di dollari; la disoccupazione comincia a scendere, in ottobre è all’8% e si stabilizza poi al 6%, ancora ben al di sopra del livello pre-COVID di 3.5%, mentre divampa un assurdo dibattito tra coesione sociale e libertà.
Ma finalmente i vaccini sono ora disponibili, e si può pensare al rilancio del paese in un ambiente reso tossico dalla già cronica spietata rivalità dei partiti, esasperata dall’eredità di Trump. Dopo un avvio abbastanza pasticciato, in parte per le conseguenze della mancanza di un sistema sanitario nazionale, esiste oramai un sistema funzionante di somministrazione. L’America talvolta ha bisogno di una piccola Pearl Harbor prima di dimostrare la sua straordinaria capacità di organizzarsi. Oggi la nuova amministrazione può cominciare a pensare al futuro. Intanto, è risultato che Biden non è onnipotente. Questo paese non ha un governo parlamentare e l’esecutivo ha poteri vasti, ma il Presidente - affinché non diventi un Cesare - è limitato nella scelta dei suoi luogotenenti. C’è uno “spoil System”, ma non si deve confondere Casa Bianca con carta bianca.
Circa 4000 posizioni nel sistema federale sono di “nomina politica”, a discrezione presidenziale, ma ben 1200 richiedono l’approvazione del Senato. Così, candidati anche ben qualificati possono cadere, ed è stato il caso di Neera Tanden, abile ed autorevole direttrice del think tank “Center for American Progress”, nominata alla guida dello “Office of Management and Budget”, che ha dovuto ritirarsi. Non è una vittoria dell’opposizione: è il segnale dall’interno del partito che, in un Senato 50/50, perdere anche un solo voto dei Democratici è una sconfitta.
Ma Biden ha intanto incassato il suo nuovo “pacchetto” di stimolo, emendato dal Senato, ora alla Camera per conferma e di lì alla Casa Bianca probabilmente in settimana per la firma. Solo allora il Presidente potrà parlare al Congresso a camere riunite, per l’atteso discorso programmatico, che rappresenta l’occasione per Biden di dire la sua sullo stato del paese all’inizio del mandato e motivare la nazione sulle mete dell’immediato futuro. Il provvedimento finanziario che Biden si prepara a firmare è colossale, e autorizza una iniezione di spesa pubblica dell’ordine dell’intero PIL di un paese come l’Italia. Vengono in mente paragoni col “New Deal” di Roosevelt, che pose fine alla Depressione, sconvolse la società e preparò l’America al gigantesco sforzo industriale degli anni di guerra.
Un provvedimento di questa ampiezza non sarà puramente congiunturale, ed è possibile che si riveli un momento altrettanto epocale per gli effetti che potrebbe avere sulle componenti sociali, culturali ed etniche della società americana.
L’impresa di guidare l’America attraverso il recupero dalla crisi COVID più Trump, non lascerà molto tempo a Biden per la pratica delle relazioni internazionali. Perciò forse sarà data maggiore visibilità al ruolo di Kamala Harris, il cui incarico di solito non consente di brillare; forse il Segretario di Stato Blinken sorgerà a protagonista: chiunque sia, troverà una Europa meno distante che ai tempi di Trump e Pompeo. E immaginabile un avvenire più dinamico, in cui sarebbe più facile anche per l’Europa mostrare un rinnovato impegno.
Non ci sarà evidentemente un puro e semplice ritorno al 2016. La parte meno complessa è stata già realizzata. Il recupero del WHO e del WTO (Organizzazione mondiale del commercio) erano scontati, bastava una lettera, e così il rientro negli accordi di Parigi, ma non è immaginabile un roll-back generalizzato di tutte le iniziative - buone o cattive - effettuate dall’amministrazione Trump: basta pensare alla decisione di spostare la sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme. Il relativo prezzo politico è stato pagato, e rinunciarvi porterebbe a pagarlo due volte.
Ciò non vuol dire che il futuro obbligherà Blinken a calzare gli stessi stivali di Pompeo. Invece, risanare la discontinuità creata da Trump potrebbe al contrario allargare il discorso in cerca di nuovi equilibri più estesi. Uno dei primi test sarà quello dei rapporti con l’Iran. Oggi Teheran ha superato i limiti previsti dall’accordo nucleare preesistente, e recuperarne gli obiettivi comporterebbe probabilmente una nuova architettura più complessa.
La visione strategica tradizionale in America indica ancora che il pericolo diretto più grave resta la Russia (che continuerà ad essere scoraggiata in ogni modo dal perseguire avventure), ma la competizione strategicamente più pericolosa è quella della Cina, che a differenza della Russia ha tempo, ambizione e mezzi per realizzarla. Negli ultimi cinquant’anni la Cina, partendo da zero, ha costruito pazientemente un ambiente strategico favorevole, che le assicura l’accesso a energia, materie prime e mercati, e sta pazientemente procedendo a fortificare le vie di comunicazione per proteggere questi accessi da azioni ostili, nonostante l’allarme che ciò crea altrove nel mondo. Anche se la Cina “plays the long game”, eludendo i rischi immediati di conflitti evitabili, toccherà ora a questo governo prenderne la misura ed assicurare un percorso positivo, esente dal rischio di collisioni accidentali.
Franklin
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