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Una pillola amara per i Democratici

Lettera da Washington


Il 2 novembre si sono svolte le attese elezioni suppletive in alcuni Stati, con particolare attesa per gli esiti della Virginia e del New Jersey, roccaforti del Partito Democratico dove si intuiva il pericolo di incrinature e difatti la fiducia nel Presidente non è bastata agli elettori. Hanno fatto presa altri fattori, un segnale da valutare pensando tra un anno alle elezioni per l’intera Camera dei Rappresentanti e parte del Senato - e poi tra altri due anni le elezioni generali. Non sono mancati errori e illusioni da parte democratica, mentre occorre riconoscere che la strategia seguita dal Grand Old Party (come vengono chiamati i Repubblicani) è stata abile e tale, forse, da poter influenzare i futuri appuntamenti elettorali.


Tre commenti:

Cominciamo dallo scacco della Virginia, uno Stato solidamente democratico dove è stato eletto il nuovo Governatore repubblicano Glenn Youngkin. Qui l’insuccesso è stato pesante, e conta perché la Virginia conta. La frangia Nord dello Stato è residenza di molti washingtoniani che votano democratico, ma anche altrove il partito di Biden è ben rappresentato. McAuliffe, che era già stato Governatore tra il 2014 e il 2018, non ha saputo galvanizzare i suoi potenziali elettori e ha perso seccamente. Colpa dunque del candidato? Si, ma non basta. Anche nel New Jersey, altro Stato dove si eleggeva il Governatore, il successo dei Democratici avrebbe dovuto essere plebiscitario e si è ridotto, invece, a un numero striminzito che ha riconfermato Phil Murphy. In entrambi gli Stati esiste una componente rurale/industriale che ha sofferto nella globalizzazione, e che teme di essere ulteriormente sacrificata a una politica liberale cui non crede più: e solo oggi il partito democratico comincia a interrogarsi se non abbia eccessivamente trascurato questo l’elettorato. Si aggiunga poi, fra le ragioni della sconfitta, la scomparsa del voto giovanile, sceso della metà rispetto alle elezioni presidenziali di un anno fa.

Un secondo fattore a carico dei Dem: il perdurare dello scacco politico che si sta consumando a Washington, e che erode l’immagine di Biden. Questi, in attesa di approvazione parlamentare della seconda ’tranche’ del suo programma, sta subendo il ricatto di due parlamentari del suo stesso partito, il Senatore Manchin della West Virginia e la Senatrice Sinema dell’Arizona, oltre all’opposizione dei Repubblicani. Senza di loro, i Democratici non hanno i voti nel Senato per l’approvazione della seconda tranche del piano di governo, quella dei programmi sociali. I motivi di questa improvvida opposizione non sono cristallini: Manchin, eletto in uno Stato carbonifero, con presunti legami con l’industria estrattiva, si atteggia a difensore dei minatori contro i sacrifici imposti dalle politiche ambientali del governo e invoca una politica di sobrietà fiscale, contraria alla spesa dei programmi di Biden. Ma Trump nel 2020 vinse il suo Stato con un distacco del 40%, e chi vuole sopravvivere politicamente in West Virginia deve fare i conti con questi numeri. Quanto a Sinema, non ha neppure esplicitato le sue obiezioni al programma di Biden. La Senatrice ha ambizioni e probabilmente questa è per lei un’occasione d’oro per attirare i riflettori: nonostante militi tra le file democratiche, è eletta in uno Stato storicamente repubblicano, l’Arizona, patria di Barry Goldwater, il Senatore che iniziò la sterzata a destra del Partito Repubblicano che condusse alla presidenza di Reagan e a quel che segue. La lezione è che Trump non influenza solo i suoi seguaci, ma anche i suoi oppositori.


Il che conduce al terzo punto, che per i Democratici dovrebbe essere il più velenoso di questa brutta pagella. Punto di partenza è stata la decisione del GOP di tenere Trump fuori dall’arena, pur sposandone l’eredità politica. Il calcolo è stato che nella politica polarizzata che stiamo vivendo, i suoi seguaci erano a priori acquisiti: il coinvolgimento diretto dell’ex Presidente avrebbe solo inquinato il dibattito, allontanando i non impegnati, che erano i voti da catturare. La campagna non ha neppure insistito contro il “piano Biden” - sarebbe stato imbarazzante osteggiare i provvedimenti a favore delle famiglie, attesi e desiderati dall’elettorato. Si è scelto perciò di ricorrere alla demagogia pura, dipingendo Biden e i suoi come fautori di un disarmo morale, contrario alla tradizione americana; si sono uniti così i soliti elementi dell’ideologia libertaria (no all’imposizione di vaccini, maschere, etc.) con la bizzarra accusa di aver compromesso la coesione nazionale con l’insegnamento della cosiddetta “Critical Race Theory”, una dottrina giuridica accademica secondo cui l’intero sistema legale americano è tuttora permeato di norme che di fatto abilitano l’esercizio della discriminazione razziale. L‘ idea risale agli anni ’70, ma è tornata alla ribalta quando è stata additata dai Repubblicani come l’origine dei movimenti contro il razzismo, sul tipo di Black Lives Matter, accusandola di essere la causa delle agitazioni a sfondo razziale (e non la reazione). Nel Sud è sempre vivo l’alibi che razzismo e discriminazione siano parole che si riferiscono solo a un passato lontano. Agitarle a livello elettorale ha un effetto pavloviano sulle famiglie, l’andamento del recente voto lo conferma e certamente ne vedremo una riedizione nelle elezioni di mezzo termine.


La conclusione da trarre sull’episodio elettorale è che i Democratici sono stati penalizzati per aver festeggiato troppo presto la fine dell’era di Trump e di ciò che rappresenta. Ma possono ringraziare la provvidenza che questo risveglio ci sia stato adesso e non tra un anno, quando con l’elezione del Congresso, una sorpresa di questo tipo sarebbe potuta diventare una catastrofe irreparabile. Sta ora a loro prepararsi a farle fronte, e non mancano i modi. Biden è impegnato nella battaglia del Congresso per far passare il resto dei programmi di spesa che potrebbero avere effetti realmente trasformativi sulla società americana. Tuttavia, anche in caso di una vittoria parlamentare, il Presidente ha bisogno di un rilancio politico. Alla fine di ottobre, la sua popolarità era scesa infatti al 42%, il livello più basso nella storia dopo un anno al potere (salvo Trump che nel 2017 era sceso al 35%). Oggi il 70% degli americani - compresi quasi metà dei Democratici - pensa che il paese sia sulla strada sbagliata.


Messi di fronte ai segnali negativi di queste elezioni, i parlamentari democratici hanno finito col votare il primo dei due provvedimenti su cui si articola il programma legislativo di Biden, quello con gli stanziamenti per l’infrastruttura, che contava anche su un modesto appoggio da parte repubblicana. È oramai pronto per la firma presidenziale, ma la Casa Bianca vuole varare insieme l’intero pacchetto. Quel giorno ci sarà a Washington un sonoro respiro di sollievo, dopo il quale il ritmo respiratorio potrebbe tornare normale. L’esito entro il corrente mese dipende dalla valutazione finanziaria del programma “sociale”, ora sceso a 1,75 trilioni, da parte dell’Ufficio del Bilancio, l’organo imparziale del Congresso.


Sarebbe ossigeno per Biden nell’immediato futuro, alla testa di un partito in cui crescono sia il peso della sinistra (oggi abbastanza forte per frenare, ma non abbastanza per guidare), sia il divario tra questa e il cuore “centrista” dell’elettorato delle grandi città.


Franklin

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