Se il governo Draghi arrivasse - o fosse arrivato - alla normale fine della legislatura, le elezioni politiche sarebbero state convocate in una data compresa fra 45 e 70 giorni dal voto del 2018, cioè fra il 20 aprile e la metà di maggio del 2023.
Dopo di ciò, Draghi sarebbe rimasto in carica in attesa dell'insediamento del nuovo Parlamento, della costituzione dei gruppi parlamentari, delle consultazioni del Capo dello Stato e, infine, della formazione del nuovo governo: cioè fino, probabilmente, al mese di luglio 2023. Il governo avrebbe quindi avuto davanti a sé circa dodici mesi di nomale attività.
Questo arco di tempo comprende i mesi del prossimo inverno nei quali potrebbero determinarsi condizioni difficili di approvvigionamento del gas; comprende la situazione militare in Ucraina che richiede una risposta europea e occidentale, nella definizione della quale la voce dell'Italia ha una significativa parte; comprende un certo numero di scadenze del Pnrr dalle quali dipende la prosecuzione dei finanziamenti europei; comprende, infine, la presentazione e l'approvazione della legge di bilancio per il 2023. Dunque, questioni vitali per il futuro del Paese.
Naturalmente le fasi finali di una legislatura sono turbolente e le campagne elettorali interferiscono con la normale vita dei governi. Ma il fatto che esista un governo che ha una vastissima base parlamentare è un fattore che può moderare l'asprezza del confronto, mantenendolo nei binari della "normale" dialettica politica.
Coloro che, nel commentare le vicende di questi giorni, dicono che comunque le elezioni erano vicine e che comunque presto si doveva tornare alla "normalità" delle coalizioni ristrette, dovrebbero tenere d'occhio il calendario che abbiamo appena delineato. Una cosa è tornare alla "normalità" fra un anno, una cosa è tornarvi fra settanta giorni. Il nuovo governo potrebbe trovarsi di colpo, dal primo giorno, a dover prendere decisioni difficili con ministri e personale ministeriale appena insediato.
In più, dare del tempo alle forze politiche può significare che esse possano prepararsi alla ripresa della "normalità". Invece, correre alle elezioni, forse consentirebbe a queste forze politiche di sottrarsi a rispondere ORA a queste esigenze, creando le premesse di maggiori contrasti in futuro.
La destra potrebbe e dovrebbe rispondere agli interrogativi sulla coesione di una coalizione composta di partiti che nel corso di questa legislatura non hanno MAI espresso un voto comune di fiducia o di sfiducia sui tre governi che si sono succeduti, manifestando dunque un conflitto politico profondo fra loro. Potrebbe e dovrebbe anche comunicare agli elettori e al Paese quale fra le loro divergenti posizioni di politica europea costituirà domani la linea del loro governo.
A sua volta, la sinistra avrebbe il tempo per chiarire agli elettori e al Paese il rapporto fra PD e 5 Stelle, sciogliendo equivoci fin qui molto forti.
Il centro dovrebbe trovare il modo di dar corpo a un'area politica che ha molti temi in comune, tranne la voglia dei leader che la popolano di stare insieme.
Forse vi sarebbe il tempo di ragionare sull’opportunità di modificare la legge elettorale, non per attribuire vantaggi a questo o a quello, ma per correggere delle gravi anomalie in un sistema che vede ridotto il numero dei parlamentari. Per citare solo uno dei tanti problemi: che senso hanno collegi uninominali senatoriali con una popolazione vicina al milione?
Questi sono elementi che non dovrebbero sfuggire ai protagonisti del dibattito parlamentare della prossima settimana. Tutti, nessuno escluso.
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