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A proposito di rieleggibilità dei Presidenti della Repubblica

Nel seguente articolo affrontiamo il tema, di cui molto si discute in questi giorni, della rieleggibilità dei Presidenti della Repubblica. In particolare risaliamo al dibattito su questo argomento in Assemblea Costituente. Rileggiamo, inoltre, i messaggi alle Camere dei Presidenti Leone e Segni, cui ha fatto riferimento di recente il Presidente Mattarella. Quello che è certo è che nella scelta del Presidente della Repubblica il Parlamento è sovrano.

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Nell’Assemblea Costituente, prima di giungere alla formulazione poi adottata nella Carta costituzionale, ovviamente si discusse sia della questione della durata del mandato presidenziale, sia della rieleggibilità del Presidente della Repubblica. Circa il primo punto, nella sottocommissione e poi nella Commissione dei 75 vennero avanzate varie ipotesi – quattro, cinque, sei, sette anni - ma alla fine prevalse l’orientamento favorevole a un mandato settennale. La ratio fu di stabilire una durata superiore a quella delle legislature anche per evitare che le Camere potessero essere chiamate a una duplice elezione presidenziale nell’arco di una singola legislatura. Si ricordi che allora venne prevista una diversa durata delle due Camere – cinque anni per la Camera dei deputati, sei per il Senato – cosicché sette anni non era una durata eccezionalmente lunga, ma soltanto maggiore di quella di ambedue le Camere.

In Commissione e in Aula si discusse della non rieleggibilità. Qualcuno propose di stabilire che il Presidente eletto non fosse rieleggibile; altri proposero che non fosse immediatamente rieleggibile. Giunti in Assemblea, si votò per la formula attuale che non prevede in alcun modo la non rieleggibilità. Fu un giovane costituente, insieme con l’autorevole giurista Egidio Tosato, a fare l’osservazione più sensata. Chiese: e se si eleggesse un buon Presidente, perché dovremmo precludere al Parlamento la possibilità di mantenerlo al suo posto per un secondo mandato?

Alla questione della rieleggibilità è collegata l’altra questione, quella del semestre bianco. Una volta stabilito che il Presidente è rieleggibile, i costituenti si posero il problema di evitare il rischio che un Presidente uscente, desideroso di essere rieletto, potesse minacciare le Camere di scioglimento se esse non fossero state pronte a soddisfare quel desiderio. È una norma di salvaguardia che i saggi costituenti vollero per evitare che la prospettiva di essere rieletti potesse indurre i Presidenti in carica a cercar di forzare la mano al Parlamento.

Dunque, se, de jure condendo, si decidesse di abolire la norma sul semestre bianco, bisognerebbe prendere in considerazione l’introduzione di una norma che stabilisse la non rieleggibilità del Presidente in carica.

Invece non è affatto vero il contrario. La non rieleggibilità non implica di per sé che venga abolito il semestre bianco. In un domani, il Parlamento potrebbe decidere di modificare la Costituzione e di introdurre nella Carta, che oggi non la prevede, la non rieleggibilità, ma potrebbe decidere di lasciare in essere la norma sul semestre bianco. Potrebbe cioè decidere che è comunque opportuno impedire che nell’ultimo semestre del suo mandato un Presidente, seppur non rieleggibile, possa decidere di procedere allo scioglimento di una delle Camere o di ambedue, anche se volesse farlo non per l’obiettivo di coartare la volontà delle Camere.

In sostanza, è vero che la rieleggibilità porta con sé il semestre bianco e quindi se si intendesse, sempre de jure condendo, abolire la norma sul semestre bianco bisognerebbe prevedere la non rieleggibilità. Ma non è affatto vero che la non rieleggibilità comporti di eliminare il semestre bianco.

Questa osservazione conduce a riflettere più a fondo sulle ragioni che possano avere mosso il Presidente Segni o il Presidente Leone a porre la questione della rieleggibilità presidenziale. Qual era il loro obiettivo primario nell’avanzare quella proposta? Era di escludere comunque e soltanto la rieleggibilità? Oppure erano mossi dall’intento di assicurare ai Presidenti in carica il pieno possesso della gamma di strumenti con i quali essi si preoccupano di contribuire al buon andamento della Repubblica, di cui è parte essenziale la stabilità dei governi?

Insomma, intendevano eliminare la possibilità di rielezione, alla quale in quegli anni praticamente nessuno pensava? Oppure intendevano rimuovere il divieto di scioglimento delle Camere nell’ultima fase del mandato presidenziale, evitando però che questa estensione nel tempo dei poteri presidenziali potesse presentare i rischi paventati dai costituenti?

Questo è un punto di sostanza sul quale è bene riflettere. In realtà, considerando la situazione politica degli anni nei quali Segni e Leone svolsero il loro mandato e la frequenza delle crisi di governo di quel periodo, appare assai probabile che essi fossero mossi dalla preoccupazione di ridurre la perenne conflittualità che minava la stabilità dei governi e ritenessero che l’eliminazione del potere di scioglimento delle Camere nell’ultimo semestre del mandato togliesse alla Presidenza una delle armi più efficaci di cui la Presidenza disponeva (e dispone) per tenere a freno le lotte correntizie da cui discendeva l’instabilità dei governi.

È altresì comprensibile che essi preferissero evitare di porre sic et simpliciter la questione del semestre bianco e scegliessero la strada di collegarla all’altra questione, quella della rieleggibilità. Dubitiamo, in altre parole, che il loro intento principale fosse introdurre l’ineleggibilità, alla quale allora nessuno pensava. Appare invece convincente l’ipotesi che essi fossero mossi dall’intento di rafforzare il potere del Presidente non sottraendogli neppure nell’ultimo semestre del mandato il potere di scioglimento, e tuttavia preferissero non esplicitare questo come l’obiettivo principale della loro proposta, ma ricavarlo come una conseguenza indiretta della limitazione alla rieleggibilità, nel senso che la non rieleggibilità facesse venir meno la ratio della norma sul semestre bianco.

Si ha la conferma di questa interpretazione leggendo proprio i messaggi di Leone e di Segni e in particolare il messaggio del Presidente Segni, al quale del resto fa semplicemente rinvio il messaggio di Leone. Nel messaggio di Segni del 16 settembre 1963, nel quale questi pose la questione della rieleggibilità, viene offerta un’ampia motivazione circa l’opportunità di stabilire un divieto alla rielezione del Presidente della Repubblica. Il messaggio fa riferimento a considerazioni di carattere generale sull’opportunità di non prolungare all’eccesso gli incarichi istituzionali: considerazioni rafforzate con riferimento alle statuizioni costituzionali di altri paesi, come gli Stati Uniti, che dal 1951 avevano introdotto nella loro Carta fondamentale il limite dei due mandati presidenziali. E tuttavia, una volta illustrate queste ragioni di carattere generale che suggeriscono la non rielezione o la non immediata rielezione del Presidente, Segni aggiunge una frase molto significativa. Scrive che, in conseguenza della modifica costituzionale sulla rieleggibilità che egli propone, vada abrogata la norma sul semestre bianco, aggiungendo a questo proposito considerazioni politiche molto pregnanti. Scrive Segni che “questa disposizione [il divieto di scioglimento delle Camere nel semestre bianco] altera il difficile e delicato equilibrio fra poteri dello Stato e può far scattare la sospensione del potere di scioglimento delle Camere in un momento politico tale da determinare gravi effetti.” Dunque nel messaggio è indicata la necessità politica di restituire al Presidente della Repubblica il potere di scioglimento, mentre viene affidata a considerazioni sistematiche di carattere generale la questione della non rieleggibilità. Ecco il prius e il posterius che non andrebbero mai dimenticati.

A conclusione di queste poche osservazioni, che tuttavia non lasciano alcun dubbio sulle questioni di cui si discute oggi, aggiungiamo soltanto che il giovane costituente che sostenne che non vi fosse alcun motivo di precludere al Parlamento la possibilità di rieleggere un buon Presidente si chiamava, per chi fosse interessato a conoscerne il nome, Aldo Moro.

Il Commento Politico ritiene che sarebbe giusto ispirarsi ancora oggi a quella lontana saggezza dell’on. Moro.

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