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Accendiamo i riflettori sul referendum

Il Commento Politico si soffermerà nei prossimi mesi su un tema che sembra quasi uscito dai riflettori del dibattito politico ma che riveste invece una grande importanza e su cui, quindi, ci sembra si possa aprire il dibattito che merita: il referendum sul taglio dei parlamentari, che verosimilmente avrà luogo alla fine di settembre.

Ricapitolando: questa riforma è stata fin dall’inizio un cavallo di battaglia del M5S delle origini, quello barricadero e che voleva aprire il Parlamento come “una scatoletta di tonno”. Era un albero che aveva due radici: la critica alla democrazia rappresentativa in favore di una democrazia diretta, la cui icona liofilizzata era la piattaforma Rousseau; ed il completamento, sul terreno costituzionale, della lotta alla “casta” iniziata con l’abolizione dei cosiddetti “vitalizi”.

In seguito al grande successo ottenuto nelle elezioni del 2018, i Cinquestelle hanno concordato con la Lega – partner di maggioranza nel governo Conte 1- che il taglio dei parlamentari fosse un caposaldo di quel singolare accordo chiamato “contratto di governo” che realizzava, nel modo più inaspettato e distorto, la famosa formula di Aldo Moro delle convergenze parallele : ciascun “contraente” aveva il diritto di far approvare ciò che riteneva fondamentale anche se il partner non fosse stato d’accordo, purché a condizione di reciprocità. Taglio dei parlamentari per i Cinquestelle e autonomia speciale alle regioni del nord per la Lega. Reddito di cittadinanza per i Cinquestelle e quota cento per la Lega.

Poi, nell’agosto scorso, la maggioranza di governo è cambiata. Con la sostituzione della Lega con il Pd, Leu e Italia Viva la questione delle autonomie speciali si è arenata mentre la riforma del taglio dei parlamentari, al cui perfezionamento mancava un’ultima approvazione di un ramo del Parlamento, è entrata negli accordi di maggioranza del governo Conte 2. Ma con delle condizioni. Il Pd, infatti, che nelle tre precedenti votazioni parlamentari aveva sempre votato contro, si è dichiarato disponibile a completare l’iter della riforma solo se essa fosse stata inserita in una più ampia cornice, ed in particolare se essa fosse stata accompagnata da una nuova legge elettorale.

Alla fine dello scorso anno è così sopraggiunta l’ultima delle quattro letture parlamentari necessarie. L’ assenza di tutte le altre misure, costituzionali, legislative e parlamentari, ha però indotto il previsto numero di senatori a chiedere il giudizio degli elettori su una riforma rimasta per così dire monca. La Costituzione prevede infatti che, su una riforma costituzionale approvata da meno di due terzi dei parlamentari, un quinto dei membri di ciascuna Camera possa chiedere che venga indetto un referendum. Tale referendum, inizialmente fissato per il marzo di quest’anno, è stato spostato a causa dell’epidemia a dopo l’estate e presumibilmente sarà abbinato alle elezioni regionali.

Questi i fatti.

La nostra opinione è che questa cosiddetta riforma sia profondamente sbagliata. I danni che può portare al funzionamento della nostra democrazia sono numerosi e li illustreremo puntualmente a partire dai prossimi giorni. Vi sono però due questioni generali che è necessario sottolineare da subito.

La prima riguarda il negativo “effetto domino” che l’approvazione di questa riforma può comportare su altre decisive questioni inerenti la fisionomia del nostro Stato. La difficoltà del Senato di lavorare efficacemente riproporrà il tema del bicameralismo perfetto. Un tema in sé degno di ogni considerazione ma che rischia di far prevalere impostazioni che non sembrano più all’altezza dei tempi. Verrebbe riproposta automaticamente quel l’idea del “Senato delle Regioni” che stride

con i risultati che il nostro attuale sistema delle autonomie è riuscito a realizzare. Lo si è visto in modo palese durante la gestione terribilmente macchinosa e pasticciata che il nostro modello di ripartizioni di competenze (Stato, Regioni, Comuni) ha evidenziato durante l’epidemia. Se si vuole avviare una riflessione seria sulla differenziazione di funzioni fra le due Camere pensiamo che si debba guardare in primo luogo in direzione dell’Europa.

Ma c’è una seconda questione. Una questione politica, che sovrasta tutte le altre.

Questa riforma è il frutto di una protesta, di un disagio sociale di cui il M5S si è fatto interprete, incanalandola nelle istituzioni. Questa battaglia si è trasformata in consenso politico, forza parlamentare e responsabilità di governo. Il Movimento è tuttora incerto e diviso su come spendere un capitale così rilevante, mentre le altre forze politiche – come si è visto – non hanno la forza di opporsi ad una battaglia che incontra il favore di gran parte dell’opinione pubblica insoddisfatta dell’opera delle istituzioni.

Oggi, tuttavia, anche una parte del M5S, dopo due anni di governo, ha la consapevolezza che le istituzioni non si cambiano a colpi di maglio. Sulla stessa piattaforma Rousseau si è aperto un dibattito destinato a renderla più periferica nel dibattito interno.

I cittadini, di tutti gli orientamenti politici, con il loro voto NO nel referendum, possono aiutare questa evoluzione che è in linea con gli interessi generali del Paese.

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