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Europei o campani?

Essere europei o essere campani o essere lombardi o essere lucani? È arrivato il momento che la classe politica ponga seriamente questa domanda al Paese.

Il Commento Politico ritiene che ci siano oggi le condizioni perché si possa finalmente pervenire ad una modifica di una parte della nostra Costituzione che non è adeguata alle sfide che ci attendono. Questo ci sembra anche un utile terreno di confronto su cui si può innestare quel clima di collaborazione fra forze politiche diverse che il Presidente della Repubblica non si stanca di auspicare. Vediamo perché.

Innanzitutto, e prima ancora di addentrarci in questioni politiche ed istituzionali, perché abbiamo la netta sensazione che l’epidemia in corso, con tutte le restrizioni che sta comportando, abbia cambiato l’atteggiamento psicologico dell’opinione pubblica. Gli italiani sembrano aver capito che per far tornare competitivo il proprio Paese non si può avere tutto e, nella fattispecie, non si possono avere troppi livelli di governo: Europa, Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane, Comuni, Comunità montane e via dicendo. La vera semplificazione amministrativa, di cui tanto si parla, non può non passare dalla drastica riduzione delle sedi decisionali.

In secondo luogo, dopo due decenni di progressivo inaridimento dello spirito europeo, le istituzioni comunitarie hanno cessato di essere percepite come un covo di tecnocrati lontani dai problemi e dalle speranze dei cittadini. L’Europa è certamente ancora lontana da quell’integrazione auspicata dai padri fondatori ed è ancora afflitta da farraginosità decisionale. Ma è indubbio che la crisi in atto ha costretto le classi dirigenti del continente a ritrovare una visione politica del futuro. È da questo colpo d’ala che è nato il Recovery Fund e la messa a fattor comune di problemi e soluzioni non solo è una strada destinata a non essere abbandonata ma è la via che la maggior parte degli europei pensa sia l’unica da percorrere e rafforzare, se si vogliono mantenere gli standard di benessere e civiltà raggiunti.

C’è poi da rilevare la rapida maturazione, in quasi tutti i partiti, della consapevolezza di non poter continuare a mantenere un ordinamento regionalistico come quello che si è andato realizzando. Il centrodestra e il centrosinistra hanno entrambi in passato proposto modifiche costituzionali in tal senso. Modifiche bocciate dagli elettori perché inserite in quadri di riforme istituzionali troppo ampi e spesso poco plausibili. Si tratta oggi di non ripetere lo stesso errore.

Quasi tutte le forze politiche hanno compreso che occorre metter mano al più presto alla riforma del regionalismo. I Cinquestelle ne hanno fatto una priorità. Nel Pd, come da ultimo ha rilevato ieri su Repubblica Gustavo Zagrebelsky, sono definitivamente tramontate le pulsioni iperregionalistiche degli anni 70 e 80: le crepe dell’esperienza regionale sono sottolineate da tutti suoi esponenti, a volte entrando nel merito delle inefficienze del sistema e a volte perché spinti dalla preoccupazione che l’eccessivo protagonismo dei governatori possa minare l’autorevolezza della dirigenza nazionale. Renzi a suo tempo propose questa riforma anche se in un quadro troppo ampio. Lo stesso Luigi Bersani, pur con toni più soft, sostiene che non si possa andare avanti così. Berlusconi ha più volte dichiarato che occorre cambiare modello. Fratelli d’Italia non ha mai nascosto le proprie radici caratterizzate più dal centralismo che dal decentramento. Resta fuori dal coro la Lega: ci chiediamo se il lungimirante Giorgetti riuscirà a convincere Salvini che la sua difesa delle “Regioni del nord che funzionano “non sia diventata simile al regionalismo del vecchio Pci, che nel modello emiliano trovava conforto al perenne confermarsi nei suoi confronti della "convention ad escludendum” per il governo nazionale.

Tutta la migliore dottrina è poi concorde nel ritenere fallita la riforma regionale: quella delle origini e a maggior ragione quella scaturita dalla novella del titolo V incautamente varata per contrastare gli intenti secessionisti della Lega di Bossi. Valgano per tutti gli articoli che da tempo scrive sull’argomento un autorevole studioso come Sabino Cassese.

Last but not least, la società civile: imprese, famiglie, cittadini, da tempo esasperati dal rincorrersi e confondersi dei pubblici decisori, hanno visto in una pandemia che ha messo sotto stress e nel caos la sanità, cioè la principale competenza regionale, la goccia che sta facendo traboccare il vaso.

C’è n’è quindi abbastanza per dire che questa, insieme all’altra non meno importante della buona utilizzazione dei fondi europei, è un’occasione da non perdere anche perché, come l’altra, non si ripresenterà.

Già da diverso tempo molte voci, a partire da quella del Presidente della Repubblica, si stanno levando per chiedere una maggiore coesione nazionale ed un lavoro comune diretto a risolvere i più annosi problemi del Paese. Quale occasione migliore perché maggioranza ed opposizione, pur mantenendo distinte le proprie collocazioni politiche, possano convergere in Parlamento al varo di una riforma del nostro regionalismo da tutti ormai considerato una zavorra più che un atout ?

Il Commento Politico auspica che ciò che oggi sembra finalmente possibile diventi realtà. Confidiamo che ci si concentri sul tema con precisione chirurgica, senza sconfinamenti in altre parti della Costituzione che l’uno o l’altro giudichi necessario modificare. Ad esempio, proprio nel momento in cui la politica e l’opinione pubblica sono concordi sulla necessità di cambiare strada non si rispolveri, come in una coazione a ripetere, la vecchia solfa del “Senato delle Regioni “. Alla bisogna basta e avanza l’attuale Conferenza Stato-Regioni.

La tradizione italiana non è quella di un patriottismo regionale: semmai vi è un patriottismo municipale. Se l’opinione pubblica si convincerà – e forse ne è già convinta – che amministrativamente le Regioni non funzionano, non se ne sentirà la nostalgia.

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