top of page

Pensieri e parole

Nel nostro editoriale di ieri abbiamo ricordato quali sono le condizioni da cui è nato l’incarico a Mario Draghi: l’impossibilità definitivamente accertata dal Capo dello Stato di trovare in questo Parlamento una maggioranza politica e l’inopportunità di convocare le elezioni in presenza dell’emergenza sanitaria e vaccinale, della necessità di approntare il piano italiano per il Recovery e dell’esigenza di predisporre misure in grado di limitare gli effetti della fine del blocco dei licenziamenti.

In poco tempo, anche per l’autorevolezza del presidente incaricato, si sono realizzate condizioni che lasciano prevedere per il nuovo governo il sostegno di un’ampia maggioranza parlamentare, dalla Lega ai Cinquestelle.

Una maggioranza parlamentare, non una maggioranza politica.

Da ciò non può che derivare la conseguenza che il governo non può essere un governo politico, come molti partiti fingono o insistono a chiedere. Sarà un esecutivo disegnato in totale autonomia dal presidente del Consiglio (probabilmente ascoltando i suggerimenti del Presidente della Repubblica) che forse terrà conto, nel modo ritenuto più utile per una migliore navigazione parlamentare, delle forze che hanno dichiarato di votare la fiducia.

Nel nuovo quadro che si è delineato, spiccano i repentini cambiamenti di atteggiamento delle due forze che più delle altre avevano inizialmente manifestato perplessità, se non addirittura contrarietà, alla decisione del Presidente della Repubblica e cioè i Cinquestelle e la Lega.

Mentre, però, il cambiamento di posizione dei Cinquestelle si presta ad una lettura più agevole, perché appare motivato soprattutto (e ci scusiamo se tralasciamo altri motivi che pur esistono) dalla necessità di un partito in difficoltà di non veder confermato dalle urne il suo inarrestabile declino, maggior attenzione crediamo debba essere riservata alla decisione presa dalla Lega.

Abbiamo ascoltato le dichiarazioni di Matteo Salvini alla fine dell’incontro con il presidente incaricato: la Lega non porrà veti o condizioni; la Lega si riconosce nell’europeismo di Mario Draghi; la Lega crede nell’Alleanza Atlantica come perno fondamentale della nostra politica estera; la Lega ha fiducia nel fatto che le ricette keynesiane del Presidente incaricato siano le più corrette per far ripartire lo sviluppo del Paese.

Sono dichiarazioni significative. E tuttavia, trattandosi di dichiarazioni del tutto opposte a quelle che fino a ieri costituivano la linea di quel partito, accogliamo con piacere il sostegno parlamentare al governo Draghi, ma attendiamo di vedere se ad esse seguiranno i passi coerenti che ne diano una conferma. Fino ad allora è legittimo il dubbio che possa trattarsi di dichiarazioni di comodo, pronte ad essere ribaltate con la stessa disinvoltura con cui sono state formulate. Sono solo dell'altro ieri le tesi di Borghi e di Bagnai (i responsabili economici della Lega , convertitisi sulla via di Damasco un attimo dopo che Salvini aveva manifestato la sua svolta), i cappellini del leader della Lega con la faccia di Trump, le reiterate richieste di andare al più presto ad elezioni anticipate per fare una riforma fiscale basata sulla flat tax.

Ora tutto è cambiato. Come ha dichiarato Matteo Salvini, non sarebbe la prima volta che forze politiche, prima aspramente in contrasto, convergono in un momento d’emergenza nel sostenere un governo e, in particolare, è stata ricordata l’esperienza del governo Parri e del primo governo De Gasperi. Conclusosi quel momento, quelle stesse forze politiche tornarono a dividersi in due blocchi.

Non abbiamo motivo di escludere che lo strategico mutamento di posizione della Lega possa essere autentico. Anche in altre storiche occasioni equilibri politici consolidati si sono rotti improvvisamente. Basta pensare alla frattura insanabile del Fronte Popolare dopo i fatti di Ungheria del 1956. Socialisti e comunisti non tornarono più insieme fino al termine della cosiddetta Prima Repubblica, con la sola parentesi della solidarietà nazionale.

Forse per questo, Matteo Salvini, in diverse interviste di oggi, invita l’onorevole Meloni ad entrare in maggioranza.

Ma se ciò non dovesse accadere, come in altre interviste Giorgia Meloni ha sostenuto, se cioè Fratelli d’Italia restasse fedele alla “vecchia ortodossia” del centrodestra, significherebbe che il vecchio sodalizio si è rotto per sempre? In altre parole, sempre per rifarsi ai precedenti storici richiamati da Salvini, la Lega si comporterebbe come fecero i partiti dopo la dissoluzione delle maggioranze emergenziali del 1945-46, quando nessuno di essi pensò ad un’alleanza con il Movimento Sociale?

Si tratta di un passaggio cruciale, cui tutti coloro che sospettano la presenza di una vocazione trasformistica nella nuova posizione della Lega guarderanno con attenzione. Se cioè, tra un anno, dopo le elezioni del nuovo Capo dello Stato e quindi senza le limitazioni del semestre bianco, la Lega dovesse nuovamente chiedere lo scioglimento delle Camere, presentandosi alle elezioni con il programma e la coalizione del vecchio centrodestra, i sospetti di coloro che giudicano la nuova posizione della Lega un puro e temporaneo prodotto di marketing troverebbero conferma.

I prossimi mesi dovranno perciò vedere molti altri passi del partito di Salvini verso la rottura dell’alleanza con Fratelli d’Italia e con le forze antieuropeiste con cui si accompagna in Europa.

Ma fra questi banchi di prova, ve ne è uno ancora più significativo rappresentato da come i partiti si presenteranno alle imminenti elezioni amministrative che interessano i destini delle principali città italiane. Li si capirà se c’è davvero qualcosa di nuovo nella Lega.


Post recenti

Mostra tutti

Plus ça change

bottom of page