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Una bella giornata per la Repubblica

La battaglia


Chi segue Il Commento Politico sa che avevamo da molti mesi un’idea precisa su quella che avrebbe dovuto essere la soluzione della questione del Quirinale e quella ad essa strettamente collegata del governo. Basta tornare a scorrere i nostri articoli. Quell’idea era stata riproposta da Giorgio la Malfa nel suo intervento nel corso della giornata in ricordo di Ugo La Malfa tenutasi alla Camera dei Deputati il 10 novembre scorso, alla presenza del Capo dello Stato e dei Presidenti della Camera e del Senato, nella quale aveva anche preso la parola il Presidente del Consiglio. Riportiamo le parole che concludevano il suo intervento: “L’Italia vive per la prima volta dopo i mesi angosciosi del covid e dopo anni di crescita stentata, una ripresa economica vigorosa. Si può dunque nutrire la speranza di riprendere un cammino di sviluppo economico e sociale interrotto da troppi anni… Permettetemi – aggiungeva – a conclusione di questa giornata, di augurare a tutti noi, e soprattutto all’Italia, che agli artefici di questa condizione, agli artefici di questa svolta, venga dato tutto il tempo necessario ad assicurare che davvero questa ripresa sia, non una fiamma passeggera, ma l’inizio possibile di un secondo miracolo del Paese.”


Questa era la nostra posizione e siamo lieti che questo sia stato l’esito della vicenda. Ci si poteva arrivare più rapidamente, ma il fatto è che i maggiori attori politici non condividevano allora questa posizione e sono giunti ad essa solo di fronte al baratro del caos delle candidature, delle rotture interne, dello sconcerto dell’opinione pubblica. Era la soluzione lineare, l’unica in grado di assicurare il miracolo che aveva trasformato la legislatura nata sotto i peggiori auspici nella storia della Repubblica in quella che apriva le porte alla speranza.


Il problema è che tutti i partiti sono spaccati al loro interno e questo rende doppiamente difficile per i loro leader scegliere e trovare la posizione giusta, perché essi vengono scavalcati a destra o sinistra dai loro avversari interni qualunque cosa facciano o dicano.


Per onestà di giudizio va riconosciuto che il leader della Lega, Salvini, aveva fra tutti i segretari il problema più difficile, perché oltre alle frizioni interne egli era legato contemporaneamente a due coalizioni, la coalizione di centrodestra con Berlusconi e Giorgia Meloni, e la coalizione di governo con Letta, Conte e gli altri. Doveva muoversi con questa ulteriore difficoltà. Ha quindi dovuto decidere quale dei due nodi sciogliere ed ha dovuto farlo cercando di non dover assumere su di sé tutta la responsabilità della rottura.


Chi lo critica con asprezza dal centrosinistra deve riconoscere che sarebbe stato un problema politico non piccolo se Salvini avesse sciolto il secondo e perseguito il primo. È vero che la destra non aveva in partenza i voti per eleggere da sola il capo dello Stato, ma non è detto che presentando nomi accettabili e tenendo duro non avrebbe potuto saldarsi con componenti centriste. Comunque per quella via l’esperimento di governo sarebbe caduto. Salvini ha scelto invece di mantenere in essere la coalizione di governo e quando si è trattato di scegliere un nome ha dato il via libera a Mattarella per il quale non aveva votato e di cui aveva detto che non vedeva con favore un’eventuale rielezione. È un segno di serietà che Conte e Letta dovrebbero apprezzare. Si apre qui una prospettiva politica di un certo interesse che ora Salvini dovrà perseguire in coerenza con ciò che ha fatto. Su questo (e non su altro), i consigli dell’on. Giorgetti sul necessario avvicinamento al partito popolare europeo sono giusti e siamo convinti che lo stesso Salvini se ne renda conto.


Conte era alla sua prima prova di leader; non è membro del Parlamento e questo ha rappresentato un handicap grave, specialmente quando si ha nel proprio partito un altro leader che più di lui controlla i gruppi parlamentari. Ha avuto, tuttavia, una posizione chiara e netta sul nodo Quirinale-governo ed è questo è il vero test su cui dovrebbero essere giudicati i protagonisti della vicenda.


Il giudizio di quasi tutti i commentatori converge sul fatto che il Partito Democratico sia tra le forze politiche quella che, pur scontando la presenza di molte sensibilità al proprio interno, abbia nel complesso saputo tenere dritta la barra del timone. Occorre riconoscere che Enrico Letta ha saputo tener uniti sia il partito sia i propri gruppi parlamentari, nonostante che la sovraesposizione mediatica cui il PD è sempre sottoposto potesse facilmente trasformarsi in una trappola. A differenza del passato, infatti, il PD non poteva contare che sul 12-13% dei Grandi elettori.

Ha invece perso il suo tradizionale aplomb la giovane leader dei Fratelli d’Italia, quando ha capito che il suo tentativo di aprire la strada a una soluzione che dissolvesse la maggioranza e portasse allo scioglimento immediato delle Camere era miseramente fallito. Venticinque anni fa, con un atto di una certa lungimiranza, Berlusconi aveva, come si dice, sdoganato il MSI e grazie a Giancarlo Fini il partito era entrato nell’arco politico-costituzionale. Fini ci credeva, ma i suoi successori sono molto diversi. L’on. Meloni è riuscita, nel febbraio scorso, a finire fuori del gioco politico: un errore che potrebbe pagare caro alla lunga, perché il governo gode del consenso vasto degli italiani e perché così facendo ha rotto la coalizione di centrodestra. Ha guadagnato dei voti, secondo i sondaggi, anche se da ultimo quella crescita si è fermata. Il successivo passo sbagliato lo ha compiuto ieri: votando contro Mattarella, è andata fuori anche dall’arco costituzionale riportando indietro di trent’anni il proprio partito. Il MSI era in grado di prendere i voti (una volta arrivò al 40% in molte zone del Sud), ma i suoi eletti prima o poi trasmigravano nella DC e i suoi parlamentari servivano solo per operazioni spregiudicate di qualche capo democristiano. A metà degli anni Settanta, la parte migliore lo abbandonò del tutto.


Merita un plauso per il modo in cui si è condotto in queste settimane Pier Ferdinando Casini. Egli era, per il suo passato politico e la sua lunga esperienza delle aule parlamentari un candidato possibile e autorevole alla successione di Mattarella. La sua dichiarazione di ieri conferma questo giudizio.

L’esito

Il solo che può fare un passo sul Presidente Mattarella è lo stesso Draghi. Egli avrebbe titolo per dire a quella parte del centrodestra che ha qualche dubbio sulla rielezione di Mattarella, ma invece vuole la continuità del Governo, che per lui la presenza di Mattarella è la migliore garanzia di potere continuare.” Così diceva Giorgio La Malfa nella trasmissione di Enrico Cisnetto dello scorso martedì 25 gennaio.

Del resto, al di là delle strumentalizzazioni politico-giornalistiche intervenute successivamente, la verità è che Mario Draghi nella sua conferenza stampa di fine dicembre aveva espresso con chiarezza un solo concetto politico: e cioè che se il nuovo Presidente della Repubblica fosse stato scelto con una maggioranza diversa e minore rispetto a quella che sorreggeva il suo governo, ciò si sarebbe ripercosso negativamente sulla stabilità e la vita dell’esecutivo.


Quando ieri mattina il Presidente del Consiglio è andato a colloquio con il Presidente della Repubblica e ha fatto sapere di avergli chiesto, per il bene del Paese, di accettare la rielezione, il problema del Quirinale si è risolto. Il Parlamento ha potuto esprimersi liberamente ed ha eletto Mattarella con un numero di voti altissimo.


I giornali di oggi, molti dei quali hanno alimentato la confusione di questi giorni, danno descrizioni catastrofiche dello stato dei partiti e in generale della situazione politica. Noi siamo di avviso diverso. Il maggior pericolo è alle nostre spalle e l’esito della giornata può costituire la premessa non di un anno di buon governo ma di un periodo più lungo in cui l’Italia affronta i suoi problemi sotto la guida prudente e illuminata di Sergio Mattarella.

P.S. Guardando i lunghi servizi delle varie testate siamo giunti alla conclusione che Rai Uno ha surclassato tutti, forse perché ha cercato di raccontare la storia, non di influenzarla. Chapeau a Monica Maggioni.

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