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Una o più stazioni per il Piano italiano?

I lettori del Commento Politico sanno che fin dal primo giorno in cui è apparsa questa pubblicazione abbiamo insistito sul fatto che fosse indispensabile accompagnare le misure di sostegno e di ristoro rese necessarie per attenuare o compensare i danni prodotti dalla pandemia con un programma di investimenti capace di rilanciare l’economia italiana, farle recuperare rapidamente i precedenti livelli di reddito, riportando il Paese su un sentiero di crescita abbandonato ormai da troppi anni.

Si trattava essenzialmente – abbiamo scritto moltissime volte - di evitare di finire, quando l’emergenza Covid sarà alle nostre spalle, nell’abisso della crisi del debito pubblico.

Quando poi l’Europa ha dato segno di volersi muovere essa stessa in questa direzione e si è cominciato a parlare di un Recovery Fund europeo, abbiamo tratto un sospiro di sollievo ed abbiamo posto il problema del modo in cui l’Italia avrebbe dovuto procedere a redigere il proprio Piano.

Era giugno e l’abbiamo fatto nella più splendida solitudine.

Trascorsi cinque mesi dalla delibera europea e dall’inizio della possibile preparazione del Piano italiano, adesso che la Commissione europea ci fa sapere che è molto preoccupata per la confusione e la vaghezza della posizione italiana, adesso che il governo è costretto, dopo averla definita una fake news, ad ammettere i ritardi, ecco che la questione da noi sollevata per tempo viene da tutti considerata indifferibile ed urgente.

Meglio tardi che mai.

Il governo ha inserito nella legge di bilancio una norma che istituisce una cabina di regia per monitorare l’esecuzione dei progetti italiani.

Diversi ambienti intellettuali ed accademici stanno avanzando proposte per attrezzare le nostre strutture amministrative a reggere l’impatto con un compito che, già gravoso in sé, a tutti gli osservatori appare trascendere le possibilità di una architettura politico burocratica che fa fatica anche a nominare, nel pieno del ripresentarsi della pandemia, un commissario alla sanità della Regione Calabria.

Da ultimo, abbiamo appreso dai giornali e dalle televisioni, che è stata presentata una proposta nata in ambito Assonime. Si tratta di una proposta avanzata da un autorevole think tank, cui hanno partecipato alcuni intellettuali anche da noi apprezzati.

Ne siamo lieti.

Ciò che però noi abbiamo cercato di sottolineare in questi mesi è una cosa semplice e che può costituire lo stress test per tutte le iniziative che si vogliano prendere: che prima di elaborare i progetti che debbono fare parte del Piano e prima anche di definire in dettaglio le procedure per sceglierli ed eseguirli, bisogna fare una scelta chiara fra due possibili modelli organizzativi. Bisogna decidere, sostanzialmente, il numero di quelle che abbiamo chiamato a giugno con una terminologia antiquata le “stazioni appaltanti”.

Una o molte? Una sede, un’organizzazione centrale nella quale, nell’ambito degli indirizzi politici delineati dal governo e approvati dal Parlamento, vengono selezionati con procedure chiare i progetti migliori e vengono posti in esecuzione? Oppure dieci, cento, mille a seconda che si includano solo le amministrazioni centrali, o anche quelle regionali, comunali e perché no provinciali, le comunità montane, i consorzi di bonifica e via elencando? Se si sceglie la seconda strada, è chiaro che la sola cosa da fare è tentare di mettere in piedi una “cabina di regia” per mettere ordine nel caos.

Il governo, per primo, ha scelto con naturalezza questa seconda strada.

Negli ultimi giorni, anche se con livelli di approfondimento ben maggiori, vengono avanzate proposte più articolate e complesse ma che non si discostano dall’impostazione dell’esecutivo.

Prendiamo ad esempio l’ultima, quella dell’Assonime. L’abbiamo sottoposta al test del numero delle stazioni appaltanti: una o più? La risposta è nel bellissimo grafico disegnato nel loro paper: più stazioni appaltanti, cioè tutta la pubblica amministrazione. Ovviamente una pubblica amministrazione da riformare. A tal fine, per essere certi che le mille stazioni appaltanti eseguano i progetti nei tempi che l’Europa vorrebbe e di cui l’Italia ha necessità per evitare il baratro della crisi finanziaria, si propone che nelle 1000 stazioni appaltanti operino 1000 Ispettori generali, che si accamperanno negli uffici delle stazioni appaltanti e controlleranno che tutto vada come si deve, riferendo subito a Palazzo Chigi ove ha sede la cabina di regia. L’idea è quella di riuscire a impiegare nel modo migliore le risorse europee e, allo stesso tempo, di fare la riforma della pubblica amministrazione.

Chissà se le mille stazioni appaltanti troveranno una stanza e una sedia su cui fare sedere gli Ispettori generali? Chissà se faranno veder loro le carte o le carte giuste? Chissà che non si mettano per traverso e proclamino di fatto uno stato di agitazione che nella pubblica amministrazione si palesa come uno stato di quiescenza assoluta? Chissà se presentandosi negli uffici di una Regione, l’Ispettore di turno si sentirà dire quello che il leone si sentì dire (dall’interessato) quando annunciò di voler includere nella propria dieta un orangutan?

Noi, ovviamente, confidiamo che l’impostazione del governo, in tutte le sue declinazioni, abbia successo.

Ci permettiamo tuttavia, di dire due cose in conclusione.

Uno. Il test del numero delle stazioni appaltanti deve essere fatto a chiunque avanzi delle proposte.

Due. Chi si cimenta su questo tema così arduo deve dire se è consapevole o meno del poco tempo rimasto all’Italia prima di essere travolta dalla crisi del debito pubblico. Con i decreti “ristoro”, in sé indispensabili, il debito è salito in un anno dal 136 al 160 per cento del Pil. Le risorse europee non rappresentano di per sé una soluzione perché sono in larga misura costituite da altro debito. Possono essere un’ancora di salvezza solo se usate bene e in fretta.

Questo è ciò che tutti i consiglieri dovrebbero dire al governo.

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