Lettera da Bruxelles
Del debito ci siamo quasi scordati, in tempi di “imperativi superiori” di spesa pubblica e di aiuti europei, ma in Italia ha superato i 2.700 miliardi. Gli si può contrapporre una crescita del Pil di almeno il 5%, a conferma che la spesa, e con essa il celebre “debito buono”, aiutano. Nel frattempo la pandemia pare in graduale superamento, e con essa potrebbe finire la bonaccia che ha portato alla sospensione del Patto di Stabilità. In un articolo su Il Mattino la scorsa settimana, Giorgio La Malfa ha avvertito di quanto la discussione stia entrando nel vivo sia in Commissione che all’Ecofin: i frugali, presenti in entrambi i consessi, sono pronti a prendersi una sorta di rivincita dopo quelle che considerano concessioni a paesi come l’Italia – anzi, soprattutto all’Italia – strappate in una situazione di una tale emergenza che non avrebbe permesso di dire di no. La Malfa ha ricordato le regole: per modificare il Patto occorre l’unanimità, e dunque il coltello è nelle mani dei rigoristi, i quali approvano il lavoro di Draghi (e lo stesso Conte godeva di apprezzamenti a Bruxelles) ma ritengono allarmante il livello raggiunto dal debito italiano e al massimo sono inclini a norme di attuazione più flessibili.
Non esiste ancora un calendario per la revisione delle decisioni prese durante la pandemia e per una valutazione finale dei loro effetti. Ognuno presenterà i suoi conti e la sua visione di politica finanziaria, in un confronto che sarà civile ma non privo di una profonda divisione: se è escluso il ritorno allo status ante, se l’ortodossia dei conti in ordine appare oggi insostenibile non solo per la pandemia ma anche per questioni di ordine geopolitico e di confronto con i mercati globali, per un paese come l’Italia sarà inevitabile guardarsi allo specchio e fissare dritto negli occhi gli oltre 2.700 miliardi di debito accumulati, per quanto lo si voglia ritenere virtuoso.
Il punto non sarà tanto il disporre di un governo la cui autorevolezza sappia far intendere le sue ragioni in Europa. Ma piuttosto che l’Italia della ragione sia capace di farsi valere nella stessa Italia. In altre parole: di disporre di un governo che abbia l’autorevolezza di avviare riforme strutturali che rendano sostenibile il peso del debito e migliorino la qualità della spesa pubblica, e con queste presentarsi in Europa, in modo da indurre i paesi “frugali” e l’intera Commissione a rendere permanente una maggiore flessibilità nella disciplina di bilancio. Questa volta non basteranno solo altri annunci che si rivelino poi inconcludenti, di cui i nostri governi non sono mai stati avari, ma provvedimenti effettivi. Potrà pesare anche la gestione di questioni singole e apparentemente minori, ma che a Bruxelles si trascinano da anni: Alitalia, ad esempio, o la fine delle deroghe per le concessioni balneari, o una riduzione significativa delle procedure di infrazione aperte nei confronti dell’Italia. Si chiama “credibilità”.
Ancora di più aiuterà il paese il riuscire a mettere le mani con provvedimenti strutturali in almeno alcuni dei sette vizi di cui in epoca pre-covid l’Italia aveva spesso il primato in Europa.
Ricordiamo il catalogo.
· Il costo dell’evasione fiscale, dovuta anche a una selva di procedure e scadenze e un disequilibrio nella distribuzione del carico fiscale. Nell’UE, l’Italia è al primo posto (per evasione complessiva, 90 miliardi l’anno, e per evasione pro-capite: Wall Street Italia, 29 marzo 2019).
· Il costo della corruzione (stimato in vario modo da meno di 50 a quasi 100 miliardi l’anno, con un indice di percezione che pone l’Italia al 22° posto nell’UE e prima in valori assoluti: Eurostat, 12 febbraio 2020).
· Il ruolo dell’economia sommersa (circa il 12% del pil: Blastingnews, 15 ottobre 2019).
· Il ruolo del crimine organizzato nell’economia (circa 100 miliardi di ricavi: Econopoly, Il Sole 24 ore, 22 giugno 2018, e un impatto negativo sull’economia che classifica l’Italia al 122° posto su 140 paesi a economia industrializzata: World Economic Forum, Global Competitiveness Report 2018).
· Una burocrazia che per la sua complessità, lungaggine, e ritardi nella digitalizzazione rappresenta un freno allo sviluppo economico (classificata addirittura al 136° posto sui 140 paesi a economia industrializzati presi in esame: World Economic Forum, Global Competitiveness Report 2018)
· Il costo di un ordinamento istituzionale non al passo con le esigenze di una competitività sempre più globale: un sistema bicamerale perfetto (unico caso nell’UE e quasi nel mondo: Centro Italiano Studi Elettorali dell’Università Luiss, 22 luglio 2014), un’articolazione di venti regioni, quasi ottomila comuni, autorità di bacino, consorzi di bonifica, e tanto altro.
· La permanenza di privilegi che paiono quasi retaggi feudali a beneficio di varie “caste”: diseguaglianze negli emolumenti combinati del personale politico rispetto agli altri paesi europei, trattamenti pensionistici di alcune categorie di alti funzionari, numero di “auto blu”, e ancora... Pur con un impatto finanziario a volte trascurabile, alcuni di questi privilegi sono finiti sotto esame sulla stampa di alcuni paesi “frugali”.
Sono questioni annose, appartengono a un dibattito che dura da decenni e che dall’Italia si sposterà inevitabilmente anche in Europa. Il migliore governo, nel confronto a Bruxelles, sarà quello che saprà presentarsi come capace di cambiare questa Italia che, giudicata su quei parametri, appare non meritevole: sarebbe ingenuo pensare che questi “vizi”, e il loro superamento, non abbiano un impatto in un’Europa che quando dovrà tornare a riscrivere le regole della finanza comune sarà moralista, egoista, esigente, attenta – ognuno usi il termine che preferisce.
Niccolò Rinaldi
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