Lettera da Bruxelles
L’Unione Europea appartiene a quella categoria di dubbiosi e incerti, quella razza di persone di cui Montale dice che non sanno esattamente chi siano e cosa vogliano. Per questo più ammirevoli e dotati di quel “soft power” che protegge da errori clamorosi, come una guerra avventata, e di un’esitazione che fa rima con analisi critica. Diversi da chi se ne va “sicuro agli altri e a se stesso amico” – come la Cina. Due modi di essere, e di porsi col resto del mondo, che sono entrati improvvisamente in rotta di collisione nel giro di pochi giorni: alla decisione europea di imporre alcune sanzioni ad personam – in buona parte dirigenti della regione dello Xiniang – come risposta a quello che molti in Europa definiscono il “genocidio” degli uiguri, ha fatto seguito una lista nera di parlamentari europei a cui viene vietato l’ingresso in Cina. Tra questi, non solo esponenti di primo piano del Partito Popolare, ma anche la presidente della sotto-commissione per i diritti dell’uomo e addirittura il presidente della delegazione ufficiale per i rapporti con la Cina, una voce da sempre critica ma anche amica. È una decisione che sbarra la strada a ogni dialogo istituzionale e non ha precedenti, nonostante vi siano già state burrasche tra Parlamento Europeo e Cina – il voto che negò lo status di economia di mercato a Pechino, l’accoglienza solenne riservata al Dalai Lama, e più recentemente il Premio Sakharov concesso al prigioniero uiguro Tothi.
Questa volta la crisi rischia di non restare confinata ai rapporti con il Parlamento, percepito come un enfant terrible delle istituzioni europee comunque privo di veri poteri in politica estera.
La mossa di Pechino infatti rischia di generare tre conseguenze.
1. La prima è il rinvio a chissà quando (se non il suo funerale) del Comprenhensive Agreement on Investement (CAI), negoziato con la Cina per anni e firmato lo scorso dicembre sotto il forte impulso della Presidenza tedesca e con un inserimento nell’agenda del Comitato dei rappresentanti permanenti dell'Ue (COREPER) del 28 dicembre, nonostante l’obiezione della Polonia e le riserve italiane sulla mancata previa condivisione del draft. Un decisionismo che è servito a poco, perché la ratifica del CAI da parte del Parlamento Europeo è ormai compromessa, e con questa uno strumento che avrebbe notevolmente rafforzato l’interdipendenza economica tra Cina ed Europa, permettendo investimenti reciproci molto più facili anche nei settori cinesi nei quali gli europei fanno fatica ad entrare, come i servizi o le grandi infrastrutture. Non solo, il CAI sarebbe anche un primo passo verso un accordo di libero scambio al pari di quello che l’UE ha già con Giappone, Corea, Singapore e Vietnam, e sta negoziando con India, Malesia e Australia. Una strada che senza il CAI diventa, per la Cina, molto più lunga.
2. La seconda conseguenza è costringere gli europei, tradizionalmente “dubbiosi e incerti” a compiere delle scelte rispetto ai propri rapporti con la Cina; Pechino ha un argomento di fondo: come si può pretendere di intrattenere ottime relazioni economiche e al tempo stesso accusarci di “genocidio”? L’Europa si è a lungo barcamenata. Ad esempio, la Germania ha bisogno di un rapporto strutturato con la Cina, di cui è la prima potenza esportatrice europea (nel 2018 l’export tedesco valeva 110 miliardi di euro) e il primo investitore. Tuttavia, secondo un recente sondaggio del Central European Institute of Asian Studies, ben il 60% dei cittadini tedeschi ha una cattiva opinione della Cina. Una dipendenza combinata a diffidenza, propria dell’intera Europa, che è quanto ha impedito fino a oggi una politica europea verso la Cina con la “P” maiuscola. Lo stesso Parlamento Europeo approva risoluzioni molto severe sulla pulizia etnica inflitta agli uiguri o sulla repressione a Hong Kong, salvo poi considerare la Cina un “socio” cruciale in numerose sfide globali. Ma più che ambigua l’Europa, è la Cina stessa, con le sue dimensioni e il suo ruolo commerciale, a brandire una colossale carota e un altrettanto vistoso bastone – mai brandito direttamente verso l’Europa, ma verso i suoi valori sì. Adesso sarà più difficile tergiversare tra una linea più “etica” e una più “pragmatica”, e quanto visto nelle relazioni con la Russia sarà ben poco al cospetto del gigante asiatico. Pechino verosimilmente corteggerà di più i singoli Stati membri, ma questi avranno anche capito che, con la Cina, la dimensione europea è una questione di sopravvivenza.
3. Infine, complice anche la nuova amministrazione americana, gli ultimi sviluppi sino-europei rafforzano la prospettiva di una “Alleanza delle Democrazie”. È una formula alquanto vaga, dai confini incerti ma con un certo numero di pretendenti a far parte del club. Solo restando nella regione, Giappone, Corea, Indonesia, Australia, India, hanno tutti conti aperti con Pechino. Ciascuno però ha priorità e politiche estere diverse (l’India, ad esempio, un relazione forte con a Russia). Non esiste una parvenza di coordinamento strutturale, e non può essere il G7 un esempio di buone pratiche. Eppure tutti i potenziali soci di questa alleanza hanno problemi spesso distinti ma tutti con una matrice comune: la forza della Cina.
Vale anche per l’Europa, soprattutto tenendo conto che il 2020 è stato l’anno nel quale, surclassando gli Stati Uniti, la Cina è divenuta il primo partner commerciale dell’Unione Europea. Mai prima d’ora delle sanzioni erano state applicate, e subite in ritorsione, con il numero uno del proprio commercio: una situazione non solo paradossale, ma insostenibile, almeno per come abbiamo conosciuto fin qui le relazioni internazionali. Lo stesso mercato – a lungo percepito come strumento “liberale” di stabilità internazionale e di incentivo ai cambiamenti democratici – si sta trasformando in una trappola per l’Occidente, ostaggio delle esigenze del suo benessere, di cui la Cina è un ingranaggio non da poco.
Quanto alla Cina, sembra tirare dritto per la sua strada, tessendo la sua rete di alleanze e confidando del vantaggio acquisito con la pandemia. Ma anch’essa ha le sue vulnerabilità, frutto non delle esitazioni tipiche degli europei, ma della sua eccessiva suscettibilità, della rigidità ideologica che la rende sicura ma anche invisa agli altri, e sempre meno amica di se stessa.
Mai prima d’ora del resto aveva imposto sanzioni come ritorsioni per l’indignazione europea a riguardo degli abusi ai diritti dell’uomo. Segno che un giudizio morale è preso seriamente, come un “hard power” di cui la stessa UE aveva sottostimato l’efficacia.
Paradossalmente rafforzata da questa consapevolezza, l’Europa sa che data l’interdipendenza tra Bruxelles e Pechino, il lungo viaggio di avvicinamento reciproco non può finire così. Montale chiudeva considerando che per tutti c’è solo “strada, ancora strada, e il cammino è sempre da ricominciare”. E, a quasi venti anni dal “Partenariato Strategico” tra Cina e UE, pare proprio che si debba ricominciare tutto da capo.
Niccolò Rinaldi
コメント