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1952-2022: l’occasione mancata della CED

Settanta anni fa, il 27 maggio del 1952, veniva firmato a Parigi il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa, avente ad oggetto quella difesa comune di cui tanto si parla e che tanto sarebbe necessaria per il domani dell’Europa. I paesi firmatari – gli stessi che nell’anno precedente avevano dato vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA): Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Repubblica Federale Tedesca – condividevano, a pochi anni dalla tragedia della Seconda guerra mondiale, l’obiettivo di istituire una comunità di “carattere sopranazionale” con “istituzioni comuni, Forze armate comuni e un bilancio comune” (art. 1). La lettera di quel Trattato a cominciare dal primo articolo – e soprattutto lo spirito di esso, giacché molte delle condizioni sono da allora mutate – non può non sorprendere per la sua modernità, ma anche per il forte ritardo con cui se ne torna a parlare.

Del trattato, composto di 132 articoli e vari protocolli, si possono sottolineare tre aspetti.

Il primo è la visione di politica internazionale. La CED era pensata per costituire un momento dell’integrazione dell’Europa (allora solo occidentale) capace, nel contesto della Guerra fredda, di rafforzare la comunità dei paesi liberi e il legame transatlantico. Echeggiando l’art. 5 del trattato NATO (di cui la Repubblica Federale Tedesca sarebbe divenuta membro solo nel 1955), si prevedeva che “ogni aggressione armata, diretta contro uno qualsiasi degli Stati membri in Europa o contro le Forze europee di Difesa, sarà considerata come un attacco diretto contro tutti gli Stati membri” (art. 3). La NATO era richiamata all’art. 5, dove si leggeva che la CED “coopera strettamente coll’organizzazione del Trattato del Nord Atlantico”.


Il secondo è la visione politica tout court. La Comunità era prefigurata come preludio a una Comunità politica europea. L’art. 38 sollecitava l’Assemblea della CED (una delle istituzioni che il trattato creava insieme al Consiglio dei ministri, al Commissariato, alla Corte di Giustizia) a creare le condizioni per una nuova Assemblea, eletta su base democratica, per studiare una “organizzazione di carattere definitivo” da sostituire “alla presente organizzazione provvisoria” che avrebbe dovuto essere concepita “in modo da poter costituire uno degli elementi di una struttura federale o confederale ulteriore, fondata sul principio della separazione dei poteri e comportante, in particolare, un sistema rappresentativo bicamerale”.

Il terzo è l’implicita visione di political economy. Un esercito europeo avrebbe richiesto un bilancio europeo, e un bilancio europeo un parlamento europeo, dinanzi al quale una qualche forma di governo europeo sarebbe stata responsabile. Il bilancio comune (di cui ai 41 articoli del Protocollo finanziario) avrebbe previsto l’esecuzione di programmi di approvvigionamento, armamento, equipaggiamento e di investimento in infrastrutture con degli evidenti riflessi in prospettiva anche per l’industria europea.

Sono – in nuce e in uno specchio deformato dal tempo – i problemi di oggi: le conseguenze della pandemia e della guerra di aggressione della Russia in Ucraina, con i problemi vasti e di lungo periodo che hanno generato e che stanno generando, richiedono, per evitare la frammentazione politico-sociale dell’Europa, livelli di integrazione e di spesa per investimento in beni pubblici europei che non possono più essere perseguiti con le istituzioni e le politiche esistenti, senza l’impiego di un capitale politico addizionale. Può darsi che su questo sentiero stretto debbano avviarsi anzitutto alcuni (Francia, Germania, Italia, ma anche Polonia e Spagna) affinché ogni passo abbia una qualche consistenza e forza anche morale. Può darsi anche che solo l’acutizzarsi e il prolungarsi della tragedia della guerra possano, nel tempo, indurre a tanto. Per ora però, senza per questo negare l’importanza di alcune iniziative, sembra che si navighi a vista, forse ancora scossi sul ritorno della guerra in Europa o forse coltivando la segreta speranza che la fine (quale che sia) del conflitto sollevi dalla responsabilità di scelte politiche che in realtà non si intende assumere.


Vale a questo proposito ricordare che il Trattato recava in calce le firme di alcuni dei maggiori statisti dell’Europa del dopoguerra: Konrad Adenauer, Joseph Bech, Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Dirk Stikker, Paul van Zeeland. E non è inutile rammentare che l’elevata temperatura politica del Trattato era il frutto di una rara combinazione tra eventi storici drammatici e grandi personalità politiche.


Come è noto il trattato CED fu affossato lungo l’iter di ratifica dal voto contrario, nell’estate del 1954, da parte dell’Assemblea Nazionale francese e dunque sotterrato. Fu un atto che fece scrivere a De Gasperi, in una lettera ad Amintore Fanfani vergata pochi giorni prima di morire, che la causa della CED era perduta e che con essa era “ritardato di qualche lustro ogni avviamento all’Unione Europea”. Era questo che gli faceva dire di sentirsi “molto buio”. Forse oggi dalla CED può ancora venire qualche luce.


Giovanni Farese

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