Lettera da Bruxelles
La guerra in Ucraina è il più tragico ma non l’unico dei periodi travagliati attraversati dall’Unione Europea. Dalla dissoluzione della Jugoslavia alle crisi finanziarie, dalle ondate di euroscetticismo alle emergenze migratorie, dalle spaccature sull’Iraq al Brexit, l’Unione Europea ha conosciuto le sue tensioni. A tratti si parlò seriamente di fine dell’euro, di chiusura delle frontiere Schengen, di una nuova unione per pochi paesi. Turbolenze che sono state più o meno superate con consueti soft skills: senso di realismo, compromesso, politica dei piccoli passi. Solo la riposta alla pandemia ha comportato, e solo per la politica finanziaria, un salto di qualità.
Tuttavia oggi dall’Ucraina arriva all’Europa una lezione su come attraversare un incubo ben peggiore come un’invasione e una devastazione: l’arma della comunicazione.
Non tanto quella, ovvia, dei comunicati e dei discorsi con le parole giuste al momento giusto, ma una comunicazione formidabile a due livelli. Il primo è quello istituzionale. Il presidente ucraino alterna una rappresentazione che lo vede seduto al tavolo di lavoro sotterraneo, e poi nelle grandi assisi internazionali, e poi nelle strade bombardate di Kiev, capace di firmare la domanda di adesione all’UE sotto le bombe e di fare discorsi che non la mandano a dire (credo il primo capo di Stato che abbia parlato al Consiglio di Sicurezza dell’inutilità di un’ONU in queste condizioni). Abbracciato ai suoi ministri, in maglietta, con la battuta pronta quando serve. Con lui, un intero governo e un intero apparato statale, fino all’ultimo dei sindaci sotto le bombe, si è intonato a una capacità empatica sconosciuta in altri conflitti.
Ma non è una questione di pubbliche relazioni istituzionali, perché oltre questa macchina della comunicazione – qualcuno potrebbe definirla disinvolta propaganda – di un palazzo che fa di tutto per essere poco palazzo, l’Ucraina sta mostrando una società intera capace di passare la notte anche grazie a una creatività e a una innovazione dei linguaggi collettivi che non smettono di sorprenderci. È un’impresa corale: non solo bloggers, studenti, gruppi rock, musicisti classici o grafici, ma anche pubblicitari e modelle, attivisti per il benessere degli animali, e madri, sportivi di ogni disciplina e ciclisti, infermieri e macchinisti di treni, contadini che s’imbattono in carri armati russi che si sono smarriti e soldati al fronte che si entusiasmano ancora per un gelato: nessuno vuole sottrarsi, chiunque mette in circolazione il suo contributo – vignette, video, canzoni, fotografie, spettacoli improvvisati sotto le bombe, piccole installazioni artistiche e molto altro che aiuta a resistere.
Durante una recente missione in Kazakistan, sono rimasto colpito da quanto hanno detto, separatamente, sia un politico locale che un diplomatico europeo: in questo paese c’è bisogno di una politica, di società civile e di uno spazio pubblico con la creatività di Kiev. Vale anche per l’Europa.
L’Ucraina ci fa capire come le crisi abbiano bisogno anche di una narrazione diversa, esterna e interna. Guardando i media e i social network ucraini si capisce come il soft skill di comunicazione istituzionale dell’UE sia tanto corretto quanto insufficiente, e quanto in tempi critici possa fare la differenza la forza spontanea di una cittadinanza che reagisce con un’energia vitale e spregiudicata nella sua voglia di raccontarsi, di incoraggiarsi - nella politica come nelle strade. Tutti diciamo che l’Europa non sarà più la stessa quando, qualunque ne sia l’esito, questa guerra sarà finita. Vale anche per una comunicazione istituzionale e sociale da reinventare, per il modo di raccontarci, che è poi il modo di liberarci. L'esempio viene ora dalla sorprendente Ucraina, anche in questo caso “Lux ex oriente”.
Niccolò Rinaldi
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