Lettera da Bruxelles
Siamo forse al punto di svolta finale in una vicenda i cui termini sono noti e che da tempo costituisce un contenzioso tra Bruxelles e Roma. Quindici anni fa vedeva la luce la direttiva dei servizi, la 2006/123/CE, o direttiva Bolkenstein dal nome del commissario, liberale ed europeista, che la propose (propose, sia chiaro, perché la direttiva fu votata, e dunque voluta, da Consiglio e Parlamento Europeo, e dunque anche dall’Italia). Il suo scopo è lodevole: far compiere un passo in avanti anche nei servizi al mercato unico europeo, di cui tutti invocano il compimento. Se un piemontese è libero di lavorare in Basilicata, lo stesso principio dovrebbe valere se un lucano vuole farlo in Estonia. L’apertura dei mercati dei sevizi europei a una logica comunitaria e transfrontaliera costituisce un formidabile motore di integrazione – di cui gli italiani, forti della loro pratica consolidata di lavorare all’estero, sarebbero tra i primi ad avvantaggiarsi.
Declinato il principio, il processo decisionale della direttiva ha previsto, tra posizioni del Consiglio ed emendamenti del Parlamento Europeo, la possibilità di stabilire numerose eccezioni che singoli Stati o singole categorie abbiano voluto far valere. Vi fu all’epoca una finestra di almeno due anni, e molti paesi si fecero sentire influenzando direttamente la stesura finale della direttiva. Non l’Italia, con governi e categorie che di fatto presero sottogamba l’impatto della nuova norma. Ma la Bolkenstein torna ora in ballo per l’annosa questione delle concessioni balneari, della quale Bruxelles chiede conto al nostro paese.
Approvata, la direttiva, che non è un regolamento europeo immediatamente applicabile, deve essere recepita dall’ordinamento nazionale. Questo comporta una serie di aggiustamenti che senza tradirne lo spirito e gli obiettivi, permetta alla nuova disciplina di calarsi nel contesto di un paese. Fermo restando il principio di una gara, le maglie, volendo sono larghe, potendo inserire anche criteri che premino il radicamento territoriale e gli investimenti.
Come rilevato dalla Commissione, nel caso dei balneari italiani l’applicazione della direttiva permette l’apertura del settore non solo a operatori europei, ma anche a soggetti italiani che oggi ne sono esclusi a meno di non beneficiare già di una di queste famigerate concessioni, che nel nostro paese hanno rinnovi automatici. A questi vantaggi se ne aggiunge un altro: nuove gare sarebbero di beneficio anche per l’erario, permettendo un aggiornamento dei canoni, molti dei quali - e il “molti” è un eufemismo – corrispondono attualmente a cifre irrisorie. Tra i mille esempi possibili, il caso di porto Cervo: le 59 concessioni di spiagge nel comune di Arzachena, nel 2020 hanno pagato affitti complessivi per 19.000 euro, laddove il tariffario per un ombrellone e due lettini può arrivare anche a 400 euro al giorno.
Infine, l’applicazione della direttiva, comunque dovuta per rispetto alle norme europee, pare godere di larga popolarità fra i cittadini, stanchi di vedere il litorale italiano privo di quelle spiagge libere che altrove sono assai più numerose e di pagare servizi balneari spesso dispendiosi.
Dal canto loro, le categorie dei balneari ricordano alcuni fatti: la loro è un’attività che può fruttare molto, ma concertata in pochi mesi; il loro investimento infrastrutturale deve essere riconosciuto; spesso sono portatori di un modello di impresa familiare e con radici forti nel territorio. Aspetti, tuttavia, che nei termini di un bando possono essere presi in considerazione per scongiurare impatti negativi per le categorie ed evitare la paventata colonizzazione da parte di gruppi stranieri.
Incalzati dalle categorie nazionali, i governi italiani hanno invece sempre perseguito lo scontro con Bruxelles, estendendo la validità delle attuali concessioni e lasciando questo mercato appannaggio di pochi privilegiati. Inevitabilmente, già nel 2009, l’Italia ha subito una prima procedura di infrazione, che ha poi portato al deferimento alla Corte di Giustizia, e alla condanna nel 2016. Un braccio di ferro proseguito con il rinnovo delle concessioni fino al 2033 e una seconda procedura d’infrazione avviata nel dicembre del 2020. In un tale garbuglio, e ormai prossima a vedersi comminata una pesante sanzione pecuniaria, l’Italia ha intrapreso un percorso consumatosi in alcuni passaggi cruciali avvenuti tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre.
Chiamato a decidere sulla proroga delle concessioni fino al 2033, il Governo aveva inizialmente inserito il settore balneare nel decreto Concorrenza, salvo poi, in sede di approvazione, stralciarlo e, il 5 novembre, decidere un preliminare censimento di tutte le attuali concessioni in essere e dei relativi canoni. Un modo per guadagnare tempo che ha immediatamente provocato una reazione della Commissione, sentitasi presa in giro: dopo quindici anni dall’adozione della direttiva, a fine 2021, si delibera la creazione di una mappatura, come se fin qui Stato e Regioni non avessero un quadro della situazione?
Tuttavia, il 9 novembre, ma facendo riferimento a un’udienza del 20 ottobre, il Consiglio di Stato ha dichiarato - mappatura o meno - illegittima la proroga al 2033, in quanto contraria al diritto europeo, automatica e generalizzata. Il Consiglio di Stato ha anche deciso che il tempo supplementare per mettere a gara le concessioni scade il 31 dicembre del 2023.
Da parte del governo non sono arrivati commenti. Chi, come la Regione Sicilia, aveva provato a stabilire, in virtù del suo statuto speciale, dei rinnovi unilaterali, si è trovata spalle al muro da una sentenza che pare mettere la parola fine al conflitto.
Quanto a Bruxelles, si registrano reazioni di prudenza, di compiacimento, e di perplessità.
La prudenza viene dal sospetto che, in una vertenza che dura dal 2006, il braccio di ferro possa riprendere, tenendo conto del ruolo delle Regioni e delle dichiarazioni di alcuni partiti, soprattutto nel centrodestra, assai ricettivi alla lobby dei balneari. Questo “non fidarsi”, da parte della Commissione, deriva dalla consapevolezza che fin qui Italia è stata disposta a tutto pur di non ottemperare alla direttiva Bolkenstein, al punto che qualcuno mette in conto, pur di non darla vinta al Bruxelles, anche il pagamento di una salata multa fino a quando la violazione non sarà corretta.
Il compiacimento è invece rivolto nei confronti del governo. I tempi tra le sue decisioni e quelle del Consiglio di Stato lasciano intravedere un gioco delle parti, con una soluzione giudiziaria a una questione che la politica, con una maggioranza così composita, non avrebbe potuto trovare senza frizioni che solo un tribunale poteva evitare.
Ma qui sopraggiunge la perplessità, o lo stupore. È raro che un organo della giustizia subentri in un processo decisionale che spetterebbe alla politica, con un’assertività che fin qui era mancata e che sarebbe potuta arrivare anche dieci anni fa. Un organo della giustizia che stabilisce anche quanto sia il tempo congruo per bandire le gare - due anni, appunto.
Ancorché con alcuni aspetti incomprensibili per la Commissione, e per la legalità europea, il tempo dei “balneari al governo” pare finito. Resta il sapore di una vicenda contraddittoria, un marchio di inaffidabilità, trascinata a lungo in difesa di mal interpretati interessi settoriali. È accaduto con altre violazioni delle norme europee, come con il tormentone Alitalia o la gestione delle discariche - con gli esiti che conosciamo. Lenta la giustizia, lenta anche l’Europa, lenta e navigata la politica: eppure i nodi vengono al pettine.
Niccolò Rinaldi
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