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Dopo la sentenza americana: il rischio del contagio

La sentenza della Corte Suprema americana che abolisce il diritto federale all’aborto e autorizza ogni singolo Stato a disciplinare la materia, è esplosa venerdì 24 giugno con la forza di una bomba. Sebbene già annunciata con una “soffiata” alla stampa ai primi di maggio, ha ora l’effetto di una deflagrazione che investe valori, cultura, stabilità politica e sociale, non solo in America.


La decisione della Corte cancella la storica sentenza Roe contro Wade e spazza via un diritto acquisito negli Usa quasi cinquanta anni fa ma mai veramente al sicuro, perché sempre contrastato dalla destra americana più reazionaria, evangelista, antiabortista e votata al culto delle armi. Il fatto grave è che esponenti di questa estrema e anacronistica schiera di oscurantisti sono oggi la maggioranza nella Corte Suprema, massima istituzione giudiziaria posta a garanzia dell’equilibrio fra i poteri e a difesa dei diritti. È, questa maggioranza, un lascito di Donald Trump che durante il suo mandato ha nominato tre giudici radicalmente conservatori, alterando un equilibrio di giudizio in precedenza ancora possibile.


C’è da aspettarsi che quella che oggi appare come la più devastante cancellazione di un diritto costituzionale acquisito, travolga altri obiettivi di civiltà e democrazia perseguiti attraverso campagne di opinione e atti legislativi che hanno preso le mosse fin dal secolo scorso. Nelle motivazioni consegnate dal giudice Clarence Thomas c’è scritto, infatti, che “lo stesso principio” applicato in questo caso dovrebbe essere utilizzato per i temi della contraccezione, delle relazioni omosessuali consensuali, del matrimonio omosessuale. Il “principio” – cosiddetto “originalismo” - è quello per cui vale l’interpretazione letterale della Costituzione e quindi nessun diritto può essere affermato se non è “tema citato” dalla Carta dei Padri fondatori. L’abolizione del diritto all’aborto, non espressamente citato nella Costituzione, potrebbe dunque essere solo il primo atto di una restaurazione ormai venuta allo scoperto negli ambienti e nelle istituzioni americane a maggioranza conservatrice.

Trump esulta e parla di una svolta dettata dalla voce di Dio, ma ai suoi confida il timore di un boomerang nel voto delle prossime elezioni di mid-term. Le manifestazioni a Washington, ma anche in molte capitali europee, potrebbero fare da volano al rilancio del governo democratico di Biden oggi indebolito dalla crisi economica e dal perdurare del conflitto in Ucraina. C’è da sperarlo, anche perché ormai l’unica possibilità di correggere la sentenza della Corte Suprema è un intervento legislativo che l’instabilità dell’attuale maggioranza democratica non è in grado di assicurare.


Nell’America da sempre considerata patria delle libertà, un diritto fondamentale è stato dunque cancellato e rimesso agli umori politici degli amministratori dei singoli Stati. È una realtà che allarma le democrazie nel mondo e in Europa, dove il successo di Marine Le Pen alle legislative francesi è solo l’ultima prova dell’offensiva sferrata dalle ideologie della reazione, appannaggio dalle destre al di qua e al di là dell’Oceano.

Il livello di guardia va alzato anche in Italia. Il coro dei leader di partito è stato unanime nel condannare la decisione della Corte statunitense. Ma da noi il diritto all’interruzione della gravidanza è di fatto già pesantemente ostacolato dalla percentuale dei medici obiettori di coscienza: altissima in alcune regioni, fino all’82,7% in Sicilia e in Alto Adige. In Italia centinaia donne si spostano ogni anno alla ricerca di ospedali dove poter esercitare un diritto che dovrebbe essere loro garantito. Si spostano le donne che possono permettersi viaggi sanitari, ma non le più indigenti, condannate ad un futuro che potrebbe essere disastroso per loro e per i figli che verranno. Oltretutto un insulto al nostro ammirato – spesso con merito – Stato sociale che vanta l’assistenza pubblica fra i suoi principi di base.

Non è poi passato tanto tempo da quando un membro di un partito già allora al governo, il senatore Pillon, pretendeva di far passare un disegno di legge di riforma del diritto familiare che, fra l’altro, avrebbe imposto un percorso lungo e costoso per le separazioni delle coppie; avrebbe prospettato sanzioni anche pecuniarie per le denunce di violenza poi decadute; avrebbe stabilito una precostituita ripartizione dei tempi di cura dei figli trascurando la specificità e la volontà del minore; avrebbe ridotto le pene per i casi di maltrattamento e quelle per il mancato obbligo di contribuire al mantenimento del coniuge. E così via. Una normativa, insomma, condannata persino dall’Onu perché avrebbe comportato “una grave regressione”, alimentando la disuguaglianza di genere e non assicurando sufficiente tutela a donne e bambini che subiscono violenza in famiglia.

Oggi Pillon dice: “Portiamo anche in Europa e in Italia la brezza leggera del diritto alla vita di ogni bambino”.

E, d’altronde, solo di recente Giorgia Meloni dal palco dell’estrema destra spagnola gridava i suoi “Sì alla famiglia naturale, No alle lobby Lgtbt; No all’ideologia gender; Sì alla cultura della vita; No all’abisso della morte”.

In Italia la questione dei diritti civili è ancora irrisolta, troppi capitoli sono ancora aperti in Parlamento e adesso vengono scavalcati dalle molte emergenze legate alla guerra in Ucraina. Ma la sentenza della Corte americana rischia di rilanciare le tentazioni di una destra reazionaria anche da noi mai sopita: basta sentire lo strepito dei social per capirlo. I partiti democratici devono saper cogliere l’urgenza del momento e difendere, ora più che mai, le conquiste di libertà scritte nella migliore storia del nostro Paese.


Silvia Di Bartolomei

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