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Riforme costituzionali e stabilità del Governo

Alle ultime elezioni politiche, quando ha votato solamente il 63,8% degli aventi diritto al voto (32,5 milioni di elettori su 50,9 milioni)[1], con il 44% dei voti espressi (ovvero con 14,3 milioni di voti, il 28,1% degli aventi diritto al voto) la coalizione di centrodestra si è assicurata alla Camera dei deputati 237 seggi su 400 (il 59% dei seggi; un premio di maggioranza del 34%) e al Senato 112 seggi su 200 (il 56% dei seggi; un premio di maggioranza del 27%).


Eppure, non contenta di questi risultati, espressi dalle urne (a causa forse di qualche non marginale tensione all’interno della coalizione di governo, le cui componenti stanno dimostrando di perseguire in Europa alleanze incompatibili), il (la) Presidente del Consiglio dei ministri (Meloni), assieme al ministro per le riforme costituzionali e la semplificazione normativa (Alberti Casellati), ha presentato al Senato della Repubblica un Disegno di legge costituzionale che propone modifiche agli articoli 58, 88, 92 e 94 della Costituzione: (i) per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, (ii) il rafforzamento della stabilità del Governo e (iii) l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica. Per ottenere risultati analoghi a quelli ottenuti nelle elezioni anticipate del settembre 2022, quali che fossero, in futuro, i voti effettivamente ottenuti.


La relazione al disegno di legge esordisce affermando che


« la propo­sta di revisione costituzionale ha l’obiettivo di offrire soluzione a problematiche ormai risalenti e conclamate della forma di go­verno italiana, cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggio­ranze, il “transfughismo” parlamentare. Tali criticità hanno prodotto riflessi signifi­cativi non solo sull’assetto istituzionale del Paese, ma anche, e soprattutto, in campo economico e sociale, con risvolti ben perce­pibili, quotidianamente, nella vita dei citta­dini ».


Al contempo la proposta di legge mirerebbe a                                                                    


« consolidare il principio democratico, valoriz­zando il ruolo del corpo elettorale nella de­terminazione dell’indirizzo politico della Na­zione, attraverso l’elezione diretta del Presi­dente del Consiglio dei ministri e la stabi­lizzazione della sua carica, per dare appog­gio e continuità al mandato democratico ».  

                                                                           

Se la proposta venisse approvata, tali risultati verrebbero raggiunti rendendo di fatto forzatamente omogenei Governo e Parlamento – eletto, il secondo, a traino del Presidente del primo -, eliminando una serie di checks and balances che tutti i sistemi democratici avanzati conservano al loro interno, e con un oltraggioso premio di maggioranza che neppure la legge Acerbo prevedeva senza che almeno il partito beneficiario del premio ottenesse un minimo di voti (in quella fattispecie, il 25% dei voti espressi); che la proposta in esame non prevede.[2]


E vediamo perché. I cittadini italiani erano, nel 2021, 59,11 milioni (in diminuzione), di cui 50,9 milioni (l’86,1%) aventi diritto al voto. Di questi hanno effettivamente votato, alle ultime elezioni, 32,5 milioni di elettori, ovvero il 63,8% degli aventi diritto al voto, e il 54,9% dei cittadini. Ipotizziamo che alle elezioni da tenere per la prossima legislatura (quando, se fosse approvata, la proposta entrerebbe in vigore) partecipino otto partiti che ottengano ciascuno, in media, il 10/10,625% dei votanti, ovvero tra l’80 e l’85% dei voti, e tre partiti coalizzati – collegati al Presidente del Consiglio dei ministri eletto dal «popolo», a maggioranza semplice, anzi semplicissima; non è previsto alcun quorum (art. 3 del disegno di legge costituzionale) - che ottengano tra il 15 e il 20% dei voti. In base alle norme proposte,  questi, con il 15-20% dei voti espressi, ovvero con una quota compresa il 9,6 e il 12,75% degli aventi diritto al voto, e tra il 7,5 e il 10% degli italiani, ed essendo minoritari rispetto a tutte le altre forze (o debolezze) politiche, otterrebbero il 55% dei deputati e dei senatori. Un moltiplicatore (« un premio che garantisca », dice l’articolato) compreso tra 2,75 e 3,7 volte i voti ottenuti.


Ora, malgrado le affermazioni di « democraticità » della proposta e al da essa invocato e preteso « rispetto del voto popolare », un tale risultato confliggerebbe con alcuni principi fondamentali della Costituzione, di cui la proposta fa strame. A cominciare dall’art.1, comma 2:                                                                                                         


La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.   

                                                                                                 

Con la proposta, la « sovranità » verrebbe trasferita a una minoranza del popolo, e si tradurrebbe in una dittatura della stessa sulle maggioranze, sia pur frammentate, del popolo residuo, che così perderebbe gran parte della sua voce. Verrebbero traditi anche il dettato dell’art. 3, comma 1

                                                         

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, e della previsione, al comma 2 dello stesso articolo, che recita:                                                                          

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.   

                                                   

Verrebbe altresì violato l’art. 48, comma 2, della Costituzione:                                                        

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

Qualora la proposta venisse votata, il voto di ciascun cittadino, di ciascuno di noi, verrebbe reso radicalmente diseguale. Nonché l’art. 49:                                                                                                                                               

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.                                                                                 

Cosa ci sia di democratico in questo sovvertimento della volontà della maggioranza dei votanti in favore di una minoranza, anche se infima, ma  « garantita per legge » non può che sfuggire ai più (anche se non - sembra - alle signore Meloni e Alberti Casellati).

La proposta poi, non sul piano giuridico, ma su quello politico, si traduce non, come la relazione afferma,


« nella difficoltà di concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo »,


ma nella ammissione, da parte del Governo, di essere incapace di argomentare le proprie proposte (o indirizzi) politici senza il sostegno delle proposte protesi premiali e stracciando il principio democratico della discussione e del confronto: ad armi pari. Il Presidente del Consiglio dei ministri, che sostiene di voler parlare con tutti gli altri 26 Stati dell’Ue, non vuole farlo, alla pari, con i partiti del Parlamento italiano.

Prosegue, la Relazione:                                                                                                                             

« Ed infatti la mancanza di stabilità e di co­esione delle compagini governative e del continuum che lega maggioranza parlamen­tare ed Esecutivo si traduce, innanzitutto, nella difficoltà di concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione ».                                                                  

Tale malinteso continuum consiste in realtà nella abolizione di qualsiasi dialettica tra Esecutivo e Parlamento, fondamento e garanzia del pluralismo sul quale la nostra Costituzione, basata sulla centralità del Parlamento, si fonda, e che già in sede di lavori preparatori e approvazione del testo della Costituzione introduceva «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo»[3] . Un ulteriore sovvertimento. La sovranità è, infatti, dell’intero popolo, non di una minoranza che si pretende maggioranza, al traino di un Presidente del Consiglio che invece di essere sottoposto al Parlamento, ne determina la consistenza «di parte», rendendolo suo vassallo, a scapito della maggioranza effettiva del «popolo».


La Relazione prosegue il suo cammino invocando, a giustificazione del suo impianto complessivo                                                                                                                                            

« la fluidità e il trasfor­mismo che si registrano, storicamente, in sede parlamentare» e che depotenziano alquanto, in corso di legislatura, la decisività del voto elettorale rispetto all’investitura della  maggioranza e alla definizione del suo mandato in termini di contenuti programmatici ».                                                                                                                                

Il trasformismo poco ha a che fare con la proposta e andrebbe curato con altri mezzi, ogniqualvolta fosse indebito. Ricordiamo, peraltro, che l’art. 67 della Costituzione recita:


Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.                                                                                                                       

Ogni membro del Parlamento, quindi, non può, né deve, essere al servizio dell’Esecutivo, ma della Nazione, concetto meno partigiano di quanto i presentatori del Disegno di legge costituzionale in esame non ritengano, Ennesimo stravolgimento implicito nella proposta[4]. E abbiamo visto come, con l’abnorme premio di maggioranza previsto dal Disegno di legge costituzionale in esame i cittadini, e i votanti, sarebbero sottoposti ad una dittatura della minoranza, mentre la maggioranza artificiale che si verrebbe a determinare potrebbe impadronirsi di tutte le leve del potere. A cominciare dai Regolamenti delle due Camere (Art. 64 della Costituzione). Essi dovrebbero rappresentare un presidio delle minoranze; mentre già Mortati riteneva che, essendo adottati solo da una maggioranza semplice, andrebbe evitato che la maggioranza (in particolare se posticcia, come lo potrebbe essere in base alla proposta) approfitti del fatto di essere tale per imporre nel regolamento eccessive limitazioni del diritto di discussione o altrimenti attentare al normale svolgimento dell’attività parlamentare[5]. Cosa che già avviene con l’eccesso, ormai prassi, della decretazione di urgenza. Rischi analoghi potrebbero presentarsi per il successivo articolo 66, primo comma:                                                                                                                   

Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità,                                                                           

abolita di fatto - in base alla proposta in esame - la normale dialettica garantita da un effettivo pluralismo. Quanto ai « contenuti programmatici », essi, nel nostro sistema, sono sempre stati considerati libri dei sogni, e le promesse elettorali, fatte per ottenere voti, sono state sempre disattese di fronte alla ben più dura realtà dell’esigenza di governare. E dai mutamenti imposti dal mutare delle situazioni.


Prosegue, la Relazione:                                                                                                                      

« Non per caso gli anni recenti si caratterizzano per un marcato astensionismo e per una sempre più evidente disaffezione verso la politica dei cittadini, i quali si trovano im­possibilitati – come invece è necessario in un ordinamento democratico – a distinguere e imputare correttamente le responsabilità nell’ambito di un sistema decisionale vi­schioso: aspetto che si riflette in una forte compressione della capacità di selezionare, giudicare, e dunque confermare o non con­fermare, la classe dirigente alle urne ».                                                                                                                                                 

Più probabile che la disaffezione derivi dal fatto che i sogni promessi nelle sempre più frequenti, se non permanenti, campagne elettorali di ogni ordine e grado, siano sempre più spesso disattesi nella pratica.


La proposta opererebbe su cinque versanti, secondo la Relazione                                                                     

« tutti riconducibili nella loro essenza alla decisività e al rispetto del voto popo­lare: introduce un meccanismo di legittima­zione democratica diretta del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e di­retto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere. Si prevede inoltre che il Presidente del Consiglio venga eletto nella Camera per la quale si è candidato: ciò implica che que­sti, così, sia necessariamente un parlamen­tare, sottoposto al voto popolare, e non un soggetto « esterno » al circuito del suffragio elettorale; assicura la stabilità nel tempo dell’inca­rico del Presidente del Consiglio, sancen­done una durata quinquennale; garantisce il rispetto del voto popolare e la continuità del mandato elettorale confe­rito dagli elettori, prevedendo, mediante un’apposita clausola “anti-ribaltone”, che il Presidente del Consiglio dei ministri in ca­rica possa essere sostituito solo da un parla­mentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di Governo: la rottura definitiva del patto di governo determina lo scioglimento delle Camere e il ritorno al giudizio degli elettori stessi; si fa carico della questione della gover­nabilità, salvaguardando al contempo il prin­cipio di rappresentatività, affidando alla legge la determinazione di un sistema elet­torale delle Camere che, attraverso un pre­mio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio la maggioranza dei seggi parlamentari; infine, nella logica di portare la legittimazione democratica al più ampio numero possibile di istituti della forma di governo, si supera la categoria dei senatori a vita. Un intervento, quest’ultimo, reso inevitabile, nella già menzionata prospettiva di stabilità delle maggioranze, dall’intervenuta riduzione del numero dei senatori, che ha ulterior­mente ridotto il margine delle maggioranze in quel ramo del Parlamento. Dal punto di vista tecnico, la formula­zione del testo è ispirata a un criterio « mi­nimale » di modifica della Costituzione vi­gente, nella convinzione che si debba ope­rare, per quanto possibile, in continuità con la nostra tradizione costituzionale e parla­mentare e che pertanto gli interventi di re­visione debbano limitarsi a quelli stretta­mente necessari al conseguimento degli obiettivi. Ciò consente, da un lato, di ridurre anche le difficoltà applicative e i dubbi in­terpretativi; dall’altro, di preservare al mas­simo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, che l’esperienza repubbli­cana ha confermato quale figura chiave della forma di governo italiana e dell’unità nazio­nale».


Tali affermazioni meritano un’analisi puntuale, una per una.


Decisività e rispetto del voto popo­lare.

Abbiamo già visto che in base alla proposta, quello che viene rispettato è solo il voto di quanti lo hanno espresso in favore del candidato Presidente del Consiglio, quali che possano essere, in dispregio del resto dei votanti.


• La proposta                                                                                                                                     

«introduce un meccanismo di legittima­zione democratica diretta del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e di­retto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere».

                                                                 

La proposta, invero, elimina la centralità del Parlamento, prevista dai costituenti e confermata dalla Corte costituzionale[6], nonché ogni dialettica tra Parlamento ed Esecutivo, in quanto i parlamentari verrebbero eletti a traino del Presidente del Consiglio e ne diventerebbero dipendenti, e introduce «una donna (o un uomo) solo al comando». C’è un certo sentore di caserma, di bivacchi di manipoli. Anche se dovesse prevalere una maggioranza diversa dalla attuale.


• «Si prevede inoltre che il Presidente del Consiglio venga eletto nella Camera per la quale si è candidato: ciò implica che que­sti, così, sia necessariamente un parlamen­tare, sottoposto al voto popolare, e non un soggetto “esterno” al circuito del suffragio elettorale»                                                                                                                             

La Relazione sembra implicare un terrore della, a questo punto, davvero « casta » dei politici di professione, o quanto meno dei proponenti, per la possibilità che statisti - come Ciampi, Dini, Monti, Draghi – (che pure hanno tutti risposto delle proprie azioni al Parlamento), ci salvino da situazioni altrimenti insostenibili, come la storia del nostro Paese ha purtroppo più volte dimostrato. Casta talmente ristretta che non si prevede che possano governare neppure gli eletti nelle Regioni (sottoposti anch’essi al voto popolare) o esponenti di altre emanazioni dello Stato: solo parlamentari. Con buona pace della eguaglianza dei cittadini.             

Per fortuna la proposta non si è azzardata ad imporre lo stesso criterio per il Presidente della Repubblica; forse i suoi proponenti non si sono resi conto di questa « anomalia ».      

Persino il Papa (in un altro ordinamento) può essere eletto al di fuori del Collegio cardinalizio.


• La proposta                                                                                                                           

« assicura la stabilità nel tempo dell’inca­rico del Presidente del Consiglio, sancen­done una durata quinquennale; garantisce il rispetto del voto popolare e la continuità del mandato elettorale confe­rito dagli elettori, prevedendo, mediante un’apposita clausola “anti-ribaltone”, che il Presidente del Consiglio dei ministri in ca­rica possa essere sostituito solo da un parla­mentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di Governo: la rottura definitiva del patto di governo determina lo scioglimento delle Camere e il ritorno al giudizio degli elettori stessi ».                                                                                                                                      

Il Disegno di legge fa in realtà tutt’altro, con la risibile previsione che, cacciato il Presidente del Consiglio eletto (i cui cinque anni non sono affatto garantiti), dopo alcuni conati (vedremo l’articolato), possa subentrare nella carica un parlamentare non solo della stessa coalizione (un graziato dal premio che «garantisce» il 55% degli eletti nelle due Camere quale che sia stato il voto), ma che sia anche impegnato a perseguire lo stesso programma di governo dell’estromesso. Difficile capire per quale motivo si debba sfiduciare un Presidente del Consiglio per sostituirlo con un altro che faccia le stesse cose. La logica non sembra il forte dei proponenti. Quel che è certo, è che la norma fa prevedere lotte fratricide ad ogni stormir di fronda. E se si dovesse, ad ogni «sfiducia», fare ricorso a nuove elezioni, invece di eliminare le vituperate discontinuità governative[7], come la proposta pretende, si introdurrebbe nel nostro sistema l’instabilità dei Parlamenti. Un continuo ricorso al popolo, il quale forse getterebbe definitivamente la spugna.


• « Quanto al sistema elettorale, si rinvia alla legge, che, nel rispetto dei principi di gover­nabilità e rappresentatività, dovrà garantire al partito o alla coalizione collegati al Pre­sidente del Consiglio dei ministri, mediante un premio assegnato su base nazionale, la maggioranza dei seggi nelle Camere. Si in­tende, con tale disposizione, evitare le dege­nerazioni funzionali che hanno caratterizzato l’esperienza del Premierato israeliano.»

                                                                                            

Lasciamo stare, in questo particolare momento storico, il Premierato israeliano, ricordando piuttosto che nessun altro sistema al mondo prevede allo stesso tempo: (i) l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, (ii) l’asservimento del Parlamento all’Esecutivo, di cui diverrebbe derivazione, (iii) l’abolizione della dialettica propria dei sistemi democratici, e (iv) un premio di maggioranza spropositato. Il rinvio alla legge, poi, non sembra un rinvio a una legge altra, ma allo stesso Disegno di legge costituzionale. Un auto-rinvio: ce la suoniamo e ce la cantiamo da soli, nello stesso fiato. Se poi si intendesse dire che si tratta di un rinvio a una legge altra, ciò vorrebbe dire che per raggiungere questo risultato aberrante non ci sarebbe neppure bisogno delle maggioranze qualificate previste per l’adozione di modifiche della Costituzione. Tutt’altra cosa il Cancellierato tedesco. Tutt’altra cosa le Presidenze statunitense e francese. Nessun altro massimo esponente di governo al mondo, nei paesi democratici, è solutus da qualsiasi controllo e dialettica. Deve dialogare, deve negoziare.           

L’assenza poi di qualsiasi previsione sul numero di mandati che il Presidente del Consiglio potrebbe collezionare, dà al progetto un certo sapore sino-turco-putiniano.


• « infine, nella logica di portare la legittimazione democratica al più ampio numero possibile di istituti della forma di governo, si supera la categoria dei senatori a vita. Un intervento, quest’ultimo, reso inevitabile, nella già menzionata prospettiva di stabilità delle maggioranze, dall’intervenuta riduzione del numero dei senatori, che ha ulterior­mente ridotto il margine delle maggioranze in quel ramo del Parlamento ». 


Abbiamo già visto quali aspetti « di casta », caratterizzino la proposta; mentre  questo «intervento» rappresenta anche uno schiaffo alla Presidenza della Repubblica. Ma la giustificazione che se ne dà implica la tesi che i senatori a vita siano antropologicamente avversi al Governo che propone la modifica in esame; il che, a specchio, significa che « i cittadini che hanno illustrato la Patria per al­tissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario », sono necessariamente estranei ai politici di professione, che analoghi meriti non hanno né vogliono avere.


• Infine, dice la relazione al Disegno di legge costituzionale:


« Dal punto di vista tecnico, la formula­zione del testo è ispirata a un criterio “mi­nimale” di modifica della Costituzione vi­gente, nella convinzione che si debba ope­rare, per quanto possibile, in continuità con la nostra tradizione costituzionale e parla­mentare e che pertanto gli interventi di re­visione debbano limitarsi a quelli stretta­mente necessari al conseguimento degli obiettivi ».


Si cerca, con questa dichiarazione, minimizzando, di parare ex ante l’obiezione che il processo di revisione della Costituzione (artt. 138 e 139), pur consentito, è sottoposto, secondo la dottrina e le sentenze della Corte costituzionale, a limiti rigorosi. Non possono infatti essere alterate le linee fondamentali dell’insieme, né la forma repubblicana, ovvero la forma di Stato democratico così come è stata definita dalla Costituzione stessa. Qui di « minimale » non c’è proprio nulla: abbiamo già visto come in nessun altro paese il sistema istituzionale preveda, allo stesso tempo, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, l’asservimento del Parlamento all’Esecutivo, di cui diverrebbe derivazione, l’abolizione della dialettica propria dei sistemi democratici, e un premio di maggioranza spropositato. E cosa implichi il combinato disposto di questi quattro fattori in termini, in particolare, di (cessate) centralità del parlamento, indipendenza dei parlamentari, e eguaglianza dei cittadini. Ma resta da vedere cosa la proposta implichi riguardo al Presidente della Repubblica. Dichiara, la Relazione, che il preteso criterio « mi­nimale », consentirebbe:


« da un lato, di ridurre anche le difficoltà applicative e i dubbi in­terpretativi; dall’altro, di preservare al mas­simo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, che l’esperienza repubbli­cana ha confermato quale figura chiave della forma di governo italiana e dell’unità nazio­nale ».


In base alla proposta, peraltro, il Presidente della Repubblica:  

                             

i) non nominerebbe più il Presidente del Consiglio, essendo costretto a nominare (scelta obbligata) innanzi tutto l’eletto dal popolo, e poi, se del caso, un suo accolito che si impegni a perseguire il programma del primo, quale che sia la situazione;

ii) non potrebbe più nominare Presidenti del Consiglio estranei al Parlamento (depotenziato), né quindi, neppure in caso di necessità, personalità di eccezionali qualità, ma non facenti parte degli « eletti », « estranei », quindi, anatema, al «circuito del suffragio elettorale »;

iii) non potrebbe più nominare senatori a vita; 

iv) non potrebbe più sciogliere le Camere, neppure in caso di necessità, se non in base ai criteri imposti dal Disegno di legge costituzionale; ovvero neppure se in Parlamento si determinasse una nuova e diversa maggioranza. (Gli eletti dal popolo sarebbero infatti vincolati all’Esecutivo).                                                                                          

 

Che ciò sia « minimale », e che la riforma voglia:

«preservare al mas­simo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, che l’esperienza repubbli­cana ha confermato quale figura chiave della forma di governo italiana e dell’unità nazio­nale », a chi scrive non pare affatto. Alla « figura chiave », non resterebbero più toppe da aprire autonomamente. Dovrà operare sotto dettatura, ridotto ad un ruolo puramente ornamentale.

 

Il Disegno comporta un tale stravolgimento della Costituzione che non pare possa essere accolto; in primo luogo dagli stessi parlamentari, a difesa del Parlamento; poi dai cittadini, la cui eguaglianza viene messa a repentaglio; e infine dai tutori della garanzie costituzionali.

 

• Venendo infine, per completezza, all’analisi – in parte forse superflua -, del Disegno di legge costituzionale vero e proprio, esso si compone di cinque articoli.


• L’articolo 1 (Modifica all’articolo 59 della Costituzione) recita:


« Il secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione è abrogato.»                                       

Si tratta della disposizione in base alla quale il Presidente della Repubblica può (può, ma, se passasse la proposta, non potrebbe più) nominare senatori a vita, in un numero complessivo di cinque, cittadini che hanno illustrato la Patria per al­tissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario.                                                                                                                                    

Abbiamo visto innanzi cosa ciò implichi, e cosa voglia dire, per i proponenti, « legittimazione democratica ».


• L’articolo 2 (Modifica all’articolo 88 della Costituzione) recita:


1.   Al primo comma dell’articolo 88 della Costituzione, le parole «e anche una sola di esse» sono soppresse.


Una delle poche previsioni del Disegno che effettivamente non toccano altre norme, e alla quale quindi non c’è nulla da opporre, se non il rimpianto per quando checks and balances non venivano ostracizzati, e le Camere, proprio al fine di introdurre checks and balances, avevano durate ed elettorati differenti. Altri tempi. Oggi è il tempo dell’egolatria, e del disprezzo per il dialogo, in troppi quartieri.


• L’articolo 3 (Modifica all’articolo 82 della Costituzione) legge:


1. L’articolo 92 della Costituzione è sostituito dal seguente:                                               « Art. 92 - Il Go­verno della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei mini­stri. Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presi­dente del Consiglio avven­gono contestualmente. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato si base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi dei seggi in ciascuna delle due camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e no­mina, su proposta del Presidente del Consi­glio, i ministri ».


Si sono esaminate, innanzi, le implicazioni aberranti di tale dettato. Ci limitiamo qui ad aggiungere che un premio elargito su base nazionale, non solo alla Camera, ma anche al Senato, eletto invece su base regionale, altera gli equilibri di quest’ultimo.


• L’articolo 4 (Modifiche all’ar­ticolo 94 della Costituzione) legge:


1.All’articolo 94 della Costituzione sono apportate le seguenti modifiche:


a) il terzo comma è sostituito dal seguente:


« Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fidu­cia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere ».


b) e aggiunto, in fine, il seguente comma:


« In caso di ces­sazione dalla carica del Presidente del Con­siglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per at­tuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così no­minato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».


• Su questo articolo, invero centrale, la Relazione sostiene che:

                                         

« No­nostante l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, permane la centralità del rapporto di fiducia e in particolare dell’approvazione parlamentare della mozione di fiducia, che coinvolge l’intera compagine governativa, nella sua collegialità, e il programma di Go­verno. Conseguentemente, si può verificare l’ipotesi in cui la maggioranza non approvi la compagine proposta dal Presidente del Consiglio e nominata dal Presidente della Repubblica o non condivida il programma presentato alle Camere dal Presidente del Consiglio. In mancanza della fiducia iniziale al Governo, il Presidente concede una se­conda ed ultima possibilità al Presidente del Consiglio di formare un Governo in modo da evitare l’estrema ratio rappresentata dal­ l’immediato scioglimento delle Camere ».


L’ipotesi, inserita per dire che con la proposta ben poco sarebbe cambiato, appare assurda; non si vede perché parlamentari eletti per grazia del Presidente del Consiglio eletto, dovrebbero negargli la fiducia; il « rapporto » pertanto, non appare più dotato di particolare « centralità ».


« La previsione », dice la Relazione, « mira ad evitare un eccessivo irrigidimento della forma di governo, non ricorrendo al meccanismo au­tomatico del simul stabunt simul cadent, previsto, come è noto, nel modello costitu­zionale relativo agli organi apicali delle re­gioni. Ciò garantisce una maggiore flessibi­lità al sistema e il pieno rispetto delle pre­rogative parlamentari. Tuttavia, nella pro­spettiva di assicurare governabilità al si­stema e di affermare una democrazia di in­vestitura, si introduce una norma “antiribaltone” [ossia contraria al verificarsi di una diversa maggioranza parlamentare; sto qui e ci resto], consentendo ai soli parla­mentari della maggioranza espressa dalle elezioni di subentrare al Presidente del Consiglio e con il solo scopo di proseguire nel­l’attuazione del programma di Governo ».


Si tratta di norme, e di valutazioni, come abbiamo visto sopra, del tutto illogiche. Come potrebbe, un governo sfiduciato, inizialmente succedere a se stesso o, in secondo luogo, essere sostituito da un governo con un diverso Presidente del Consiglio, ma costretto a chiedere la fiducia sul programma già bocciato, appare del tutto assurdo.


• L’articolo 5 (Norme transitorie) legge:


1.Restano in carica i senatori a vita nominati ai sensi del secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione, nel testo previsto alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale.                                                                                        

2. La presente legge costituzionale si applica a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere, successiva alla data di entrata in vi­gore della disciplina per l’elezione del Pre­sidente del Consiglio dei ministri e delle Camere.


Il DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023 va respinto.

 

Dicembre 2023


Oliviero Pesce, nato in Puglia nel 1938, ha percorso una lunga carriera bancaria, lavorando presso la Banca Mondiale, la Banca Nazionale del Lavoro, società finanziarie e di investimento, il Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche (Crediop) ed è stato amministratore delegato di banche estere, operando in numerosi paesi. Traduttore di testi di economia e storia economica, ma anche traduttore e autore di raccolte poetiche, ha scritto numerosi saggi su temi bancari ed economici e saggi storici. Ha tenuto corsi universitari di Management Internazionale ed è socio dell’Istituto Affari Internazionali. Nel 2016 ha pubblicato con Edizioni Clichy la sua autobiografia L’educazione di un banchiere sbalordito e nel 2017 il saggio politico Le meraviglie d’Italia. Nel 2023 ha pubblicato con Passigli Editori C'era una volta la Banca d'Italia.


 

NOTE

[1]Il numero dei votanti è stato ancora inferiore alle ultime europee (poco più del 50%) e in varie elezione suppletive.

[2] La legge Acerbo prevedeva un premio di maggioranza in quota fissa, pari ai 2/3 dei seggi, a beneficio del partito più votato qualora questo avesse superato il quorum del 25%.  Il disegno di riforma costituzionale presentato alle Camere, non prevede neppure tale soglia minima.

[3] Ordine del giorno Perassi. Vedi S. Bartole e R. Bin, Commentario breve alla Costituzione, Seconda edizione, Cedam, Padova, 2006, pag. 549.

[4] Lo stesso va detto per i pubblici impiegati, che sono anch’essi al servizio esclusivo della Nazione (Art.98 della Costituzione)

[5] Mortati, Intervento nella seduta del 20 settembre 1946 della Commissione per la Costituzione. II Sottocommissione, Aa. Vv. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, 1970, p. 1064, citato in Commentario breve, cit., pag.589.

[6] La Corte ha rilevato che «il nomen Parlamento non ha un valore puramente lessicale, ma possiede anche una valenza qualificativa, connotando, con l’organo, la posizione esclusiva che esso occupa nell’organizzazione costituzionale […] in quanto solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost), la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile» (cfr.106/2002, G. cost., 2002, I, 866 e segg. e Corte cost. 306/2002, G. cost., 2002, III, 2371 segg., esaminate in Bartole, Bin, commentario breve, cit., p. 549.

[7] Nella Prima Repubblica, le apparenti discontinuità dei governi, permettevano di tenere la barra dritta, di avere una continuità programmatica di fondo, e di governare nell’interesse del Paese piuttosto che degli eletti, ciascuno per sé e i suoi. È che c’erano alcuni statisti, e meno politicanti.



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