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I valori dell’Europa di fronte al dramma dei migranti

Due giorni fa, il 27 gennaio, è suonato alto il monito del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La Memoria non è guardare una fotografia che sbiadisce con il trascorrere del tempo, ma è un sentimento civile, energico e impegnativo, una passione autentica per tutto quello che concerne la pace, la fratellanza, l'amicizia tra i popoli, il diritto, il dialogo, l'eguaglianza, la libertà, la democrazia”.

Triste e toccante, il giorno dedicato alle commemorazioni della Shoah, è trascorso quest’anno all’insegna di un pathos reso ancora più grave dalla pena per la pestilenza in corso. La malattia, la morte, le nuove povertà, l’intolleranza, le molte deviazioni dalla pacifica convivenza, l’irrompere con forza rinnovata dell’odio razziale e della violenza.

L’Ue sta cercando di venire fuori dalla pandemia attraverso lo strumento comunitario del Recovery fund, un enorme passo avanti sul piano della solidarietà fra Stati e della riaffermazione dei valori fondanti dell’integrazione. Ma alle sue porte, proprio al centro del continente europeo, è in atto una tragedia che di quei valori, ricordati nel Giorno della Memoria, fa strame.

L’inferno dei migranti lungo il cammino della cosiddetta “rotta balcanica” non può essere ignorato, nemmeno se tutte le energie sono ora concentrate nel contrasto alla pandemia. Migliaia di profughi provenienti dal Medioriente – si stima più di un milione nel 2015 – cercano di raggiungere l’Italia, la Francia, la Germania dove sperano di ottenere asilo. Le tappe sono, in sequenza, la Grecia, poi la Bulgaria, la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria, la Bosnia Erzegovina, la Croazia, la Slovenia, l’Albania infine l’Italia, primo approdo Trieste.

Dopo l’accordo tra Unione europea e Turchia nel 2016 è stato blindato il confine fra Turchia e Grecia attraverso il quale i migranti avevano accesso alla rotta. Ma il flusso non si è mai interrotto, le masse in cerca di salvezza nei nostri Paesi trovano percorsi alternativi, superano, aprendo nuovi tracciati, i molti muri eretti dagli Stati per impedire il loro passaggio. Così in questi mesi, per evitare il muro ungherese i migranti deviano verso la Bosnia Erzegovina, stazionano in Bosnia nei campi senza luce, senza acqua né riscaldamento e quando raggiungono il confine croato vengono respinti con la violenza dalla polizia. Violenze atroci, documentate con immagini di persone picchiate e frustate, persone alle quali vengono sottratte le scarpe perché camminino a piedi nudi nella neve, intere famiglie costrette a dormire in brande all’addiaccio per convincerle a tornare indietro. Molti trovano però la forza per proseguire fino in Italia, ma anche qui vengono respinti dalla polizia frontaliera. E “the game”, così viene cinicamente chiamato il loro peregrinare, ricomincia a ritroso: respinti ai nostri confini e consegnati alla polizia slovena che li spinge in Croazia, dove vengono malmenati ed espulsi in Bosnia. Qui restano a lungo nel gelo dei boschi o nella melma di neve, fango ed escrementi dei campi di sussistenza. Ma i più non si arrendono e, come raccontano ai giornalisti che riescono a superare il divieto della polizia, ritentano la marcia, fino a sette, otto, dieci volte.

Dal 2015 l’Unione europea ha affrontato l’ondata migratoria causata dall’avanzata dell’Isis in Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan, delegando la gestione dei profughi ai Paesi balcanici, ai quali somministra fondi e sostegno logistico. Allo stesso modo, nel 2016 l’accordo con Erdogan prevedeva la gestione da parte di Ankara dei siriani in fuga dalla guerra, in cambio di assistenza e più di tre miliardi di euro. Un accordo che, come noto, si è poi prestato al ricatto del presidente turco che, per ottenere il sostegno europeo per le mire della Turchia in Siria, non ha esitato ad aprire il confine lasciando confluire i rifugiati sulla rotta balcanica.

La politica che si basa sulla cosiddetta “esternalizzazione” delle frontiere, cioè l’insieme delle disposizioni giuridiche, militari, logistiche, affidate a Stati extra-Ue per impedire l’ingresso dei migranti, non è dunque solo inefficace, è anche moralmente inaccettabile. Per le condizioni disumane in cui vengono costretti i profughi: il campo di Vučjak, in Bosnia, a pochi chilometri dalla Croazia è stato chiuso a dicembre su pressione della comunità internazionale. Perché alimenta la xenofobia degli abitanti dei territori dove vengono convogliati i profughi: i rifugiati nei campi bosniaci sono vittime di frequenti ondate di razzismo. Perché migliaia di migranti finiscono nelle mani di spregiudicati trafficanti di uomini: nei boschi della Bosnia come nelle acque del Mediterraneo, dove scafisti criminali provocano le stragi dei barconi che salpano dalla Libia. Perché, non ultimo, si prestano alle intollerabili strategie ricattatorie dei despoti verso gli Stati democratici.

L’Unione europea deve rilanciare al più presto la sua politica migratoria, riaffermare ed imporre agli Stati il rispetto della legislazione comunitaria sul diritto di asilo, pretendere norme e iniziative nazionali per favorire l’integrazione degli immigrati nelle nostre società. Cercare soluzioni non più rinviabili per i disperati dei “games” lungo tutte le rotte verso i Paesi europei.

Nell'emiciclo dell’aula parlamentare di Bruxelles, il presidente David Sassoli ha affermato: “La Giornata della Memoria non è soltanto una ricorrenza ma è soprattutto un invito all'impegno, alla vigilanza e alla responsabilità”. E ancora: “… dobbiamo sentire tutti l'impegno per una lucida e vigile coscienza storica, capace non solo di rendere testimonianza ma anche di capire, prevenire e intervenire ogni qualvolta si diffondono i semi del male assoluto”.

La coscienza storica professata dalle autorità europee nel Giorno della Memoria richiama oggi al dovere di intervenire con decisione perché la tragedia dei respingimenti nei Balcani abbia fine.

Papa Francesco l’altro ieri ha detto: “Ricordare è segno di civiltà, ricordare è condizione per un futuro migliore di pace e di fraternità”.


Silvia Di Bartolomei

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