Si alzano i toni della polemica fra il presidente americano Donald Trump e Twitter.
Di seguito, un intervento sul tema di Fabio Bassan, professore ordinario di Diritto internazionale e dell’Unione europea presso l’Università degli studi Roma Tre
La battaglia ingaggiata da Trump contro Twitter non solo andrà avanti ma ragionevolmente si inasprirà con l’approssimarsi delle elezioni. Il dibattito si concentra sui diritti ma il punto è il mercato.
Negli Stati Uniti, come anche in Europa, i social networks (Facebook, Linkedin) e le consumer communication apps (Twitter, Instagram, Skype, WhatsApp, Telegram, WeChat, Line, TikTok etc ...) non sono responsabili dei contenuti che i loro utenti pubblicano, ne’ sono tenuti a verificarne l’esattezza (fact checking). Le norme che garantiscono queste esenzioni da responsabilità risalgono a un periodo in cui le piattaforme digitali non esistevano: il Communications Decency Act del 1996 negli USA e la Direttiva sul commercio elettronico del 2000 nell’Unione europea. Esse partivano dal presupposto che internet fosse un mondo virtuale ma aperto. Probabilmente queste norme non sono più adeguate alla realtà di oggi: internet da ambiente ideale per il libero dibattito si è trasformato nel mercato più concentrato e con le barriere all’ingresso più alte. Neanche la vigilanza sulla concorrenza è strumento adeguato, poiché si basa su test di prezzo, poco utili quando i servizi sono (apparentemente) gratuiti, perché il corrispettivo (i dati ceduti) non è ancora davvero quantificabile su un piano economico.
Ciascuna piattaforma digitale si dota di regole, in continua evoluzione, che gli iscritti o i partecipanti si impegnano a rispettare. Ne definisce le modalità applicative. Adotta provvedimenti, che possono comportare anche l’espulsione dalla comunità e sono soggetti a verifica interna, con meccanismi sempre più simili a strumenti giurisdizionali. Le regole non sono esterne (dettate cioè dagli Stati in cui operano) ma interne alla piattaforma; se più o meno rigide è questione di mercato, perché le regole sono driver competitivi che possono dare vantaggio reputazionale o far perdere iscritti.
Considerati i risultati degli studi scientifici prodotti a seguito delle elezioni negli Stati Uniti del 2016 e poi in molti altri paesi, da cui emerge che la percentuale di fake sulle notizie politiche in rete è in media il 50% e tocca il 90% in prossimità delle elezioni, le piattaforme si stanno dotando volontariamente (non vi sono tenute) di strumenti per oscurare notizie o per qualificarle - come nel tweet di Trump incriminato, suggerendo verifiche sul contenuto - sulla base di strumenti di fact checking sempre più sofisticati che la tecnologia ormai consente. La questione delle regole (degli Stati) è il classico obiettivo-miraggio. Il tema è il mercato e la politica non è che uno dei campi in cui si gioca.
Fabio Bassan
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