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Il controllo dei social in democrazia

Sarà o no impeachment, comunque dopo la chiusura dei suoi profili Facebook, Instagram e Twitter il Presidente degli Stati Uniti ha le armi spuntate. La sua voce è stata silenziata anche da Apple e Amazon che hanno bandito dai loro server Parler, la piattaforma degli ultraconservatori lanciata nel 2018 e presto divenuta il punto di incontro social del sovranismo internazionale. Infatti, dopo la rimozione, nessun altro web hosting ha dato spazio a Parler, che è stato quindi definitivamente oscurato. Sarebbe, tuttavia, illusorio pensare che Trump abbia così perso il suo megafono, perché sono molti i canali criptati attraverso cui chi viene “bannato”, cioè censurato, può continuare a spargere il proprio verbo. Così sta avvenendo, si viene a sapere con apprensione, nella galassia dei server e delle app criptate dove eversivi dell’estrema destra in questi giorni danno supporto alle operazioni di preparazione della Million Militia March, la Marcia di un milione di miliziani che ora giurano l’intervento in armi il 20 gennaio per impedire il passaggio dei poteri a Biden. L’Fbi e i servizi anti-terrorismo dei singoli Stati sono mobilitati per identificare i supporters dell’annunciata insurrezione, mentre già molti fra i partecipanti dell’assalto a Capitol Hill, non solo pubblici ufficiali ma cittadini privati, sono stati espulsi dai principali social network e sottoposti a provvedimenti disciplinari o licenziamenti dai datori di lavoro.

Tutto questo avviene in America dove la libertà di espressione è garantita costituzionalmente dal Primo emendamento e dove nessuna manifestazione di pensiero è perseguibile penalmente.

Milioni di trumpiani si scagliano in queste ore contro la supposta dittatura delle “Big tech”, dando fiato alle teorie del complotto e diffondendo il passaparola della resistenza armata. Da strumento di divulgazione della dottrina trumpiana, i social network sono diventati il bersaglio del Presidente uscente e dei suoi seguaci.

Si tratta di derive pericolose, che richiedono il massimo impegno della security americana mentre si avvicina l’Inauguration day e si rafforza il proposito di Trump di non consegnare lo scettro.

Il potere delle piattaforme digitali è, però, indiscutibile e negli Usa come in Europa una legislazione incerta e lacunosa non ha ancora saputo porre confini regolamentati alla loro azione.

In Europa in questi giorni il dibattito è infuocato. La cancelliera Angela Merkel ha affidato al portavoce Steffen Seibert le sue considerazioni sulla censura “problematica” del profilo di Trump perché, ha affermato, “dovrebbe essere il legislatore, e non le aziende private, a decidere strette sulla libera espressione del pensiero dai principali social network”. Le hanno fatto eco il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire: “La regolamentazione delle Big Tech non può essere fatta dalla stessa oligarchia tecnologica” e il commissario europeo per il Mercato interno e i servizi Thierry Breton: “Il fatto che un amministratore delegato possa staccare la spina al profilo social del presidente senza pesi e contrappesi rende perplessi”, infine il capogruppo del Partito popolare europeo Manfred Weber: “La sospensione del racconto di Trump mostra l’urgenza di una regolamentazione pubblica ed europea”.

È giusto e inevitabile che gli anticorpi della democrazia reagiscano se avvertono un rischio per il valore preliminare della convivenza civile: quel rispetto della libertà di pensiero e di parola che Voltaire riteneva andasse difesa fino alla morte perfino nel caso di un pensiero ostile al proprio. Tuttavia con i suoi “cinguettii” Trump ha istigato i suoi supporter a commettere violenze e mettere in atto un crimine come l’assalto del Campidoglio di Washington, provocando distruzione, incidenti e la morte cinque persone. Hanno quindi abusato del loro potere, Zuckerberg, Dorsey e gli altri oscurando i profili di The Donald? Si tratta di una questione cruciale; il raggiungimento dell’equilibrio fra la difesa delle fondamentali libertà individuali e la sicurezza pubblica è dirimente per la sopravvivenza delle democrazie a tutte le latitudini.

I social network sono aziende private, possono quindi decidere come agire in autonomia. Anche mettendo al bando chi non rispetta le regole della comunità delle quali si entra a far parte quando si apre un profilo personale. Ma il problema è forse questo: esistono regole stabilite dai social che definiscono a loro discrezione i limiti da imporre ai loro clienti ma non vincoli giuridici e normativi che definiscano con chiarezza i perimetri entro i quali un contenuto possa essere considerato legale. Le piattaforme possono perciò definire a loro discrezione quando far scattare il semaforo rosso per fake news, messaggi violenti o di incitamento all’odio o istigazioni a delinquere. Lo spazio di interpretazione lasciato alle società nei confronti dei contenuti illegali è enorme. In America i social continuano a godere di un’immunità pressoché totale per tutto ciò che gli utenti “postano” sui loro siti. E possono, viceversa, ergersi essi stessi a giudici e censori dei loro clienti. Avviene perché sono ancora in vigore disposizioni rivolte al web del 1996, la Section 230 del Communications Decency Act, di impronta estremamente garantista, che Biden si è impegnato a modificare.

Le istituzioni europee sono impegnate da anni in uno sforzo normativo che ha portato alle due recenti proposte del Digital Services Act (DSA) e del Digital Markets Act che puntano a sottoporre le aziende digitali ad un regime di responsabilità chiaro e univoco. Se approvati, i due regolamenti segnerebbero un traguardo importante, di cui l’Ue potrebbe vantare la paternità e il merito, con l’obiettivo ulteriore di un accordo globale, su questa linea, con gli Stati Uniti.

I server digitali non sono editori e non hanno un direttore responsabile, la loro realtà non rientra nell’ambito delle leggi in vigore nel campo dell’editoria, nemmeno nelle più recenti che regolano l’editoria digitale. La dimensione ormai consolidata e monopolistica dei social rende difficile il compito del legislatore che deve orientarsi nella giungla delle sigle entrate con forza dirompente e totalizzante nella vita privata e pubblica delle nostre società.

Non c’è dubbio, però, che spetti all’autorità pubblica stabilire un codice di comportamento per limitare gli ambiti di azione delle piattaforme digitali. Una cornice normativa accettata a livello comunitario e globale è indispensabile. Saranno necessarie tutte le cautele per evitare che all’arbitrio dei social si sostituisca quello dell’autorità del potere pubblico. Non dovrà mai verificarsi la condizione di uno Stato che, esercitando una vigilanza coercitiva sui contenuti dei social network, comprima la libertà di espressione e di pensiero. Tuttavia lo spirito delle democrazie costituzionali è custodito nella massima che la libertà di ogni individuo finisce dove inizia la libertà dell’altro. La strada è ancora lunga, ma questo è l’obiettivo.


Silvia Di Bartolomei

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