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Il problema pensioni

Lo avevamo quasi dimenticato da quando l’attenzione è sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, Pnrr (e sulle turbolenze di partiti, che devono governare insieme in questa difficile fase, nonostante abbiano visioni contrapposte): il problema pensioni. L’onnipresente tema di tutte le politiche economiche italiane degli ultimi cinquanta anni. In effetti, il convitato di pietra appariva nella penultima stesura del Pnrr: un paio di righe secondo cui "la fase transitoria di applicazione della cosiddetta Quota 100 terminerà a fine anno e sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti”. Erano quasi righe “obbligate” dato che nelle raccomandazioni specifiche per il nostro Paese, da anni la Unione europea (Ue) richiede di attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso della previdenza nella spesa pubblica e creare margini per altra spesa sociale e spesa pubblica favorevole alla crescita. Le righe sono sparite nella versione del Pnrr inviata il 30 aprile a Bruxelles. Probabilmente, per non urtare la sensibilità di uno o più partner di Governo che ai tempi dell’Esecutivo giallo-verde avevano varato provvedimenti come Quota 100. Il convitato di pietra, però, si è rifatto vivo non è appena è stato varato il decreto legge “semplificazioni”. I sindacati hanno richiesto uno o più tavoli di “concertazione” in cui si metta all’ordine del giorno il futuro a breve, medio e lungo termine della previdenza.

Il tema non è più Quota 100, considerato che il totale delle persone che hanno potuto e voluto avvantaggiarsi della misura è stato appena 28.000 nel 2019 e non molti di più nel 2020 e nel 2021 (ultimo anno dell’”esperimento”), un’inezia sul totale dei pensionati in Italia (16 milioni). Non è neanche più il paventato “scalone” da 62 a 67 anni (previsti dalla “riforma Fornero), sia perché sono state introdotte nel sistema previdenziale varie modalità per usufruire di pensionamento anticipato sia soprattutto perché, purtroppo, la pandemia ha abbassato l’aspettativa di vita media degli italiani. Come documentato nell’ultimo libro di Giuliano Cazzola (“La guerra dei cinquant’anni: storia delle riforme e controriforme del sistema pensionistico, IBL libri, 2021), la letalità ha colpito soprattutto i pensionati, alleggerendo l’onere a valere sui bilanci degli enti di previdenza, soprattutto quello dell’Inps.

I nodi riguardano il medio e soprattutto il lungo termine, come sottolineato più volte dallo stesso Presidente del Consiglio Mario Draghi e ribadito il 31 maggio nelle “considerazioni finali” del Governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco. È prioritario riorientare le politiche pubbliche (e la spesa pubblica) in favore delle giovani generazioni. Tale ri-orientamento non si potrà fare senza mettere mano ad un sistema previdenziale oggi troppo mirato alle generazioni che stanno per andare a riposo. Le dinamiche demografiche e del mercato del lavoro si presentano ora molto differenti da quelle che nel 1995, quando venne introdotto il meccanismo contributivo per il calcolo delle spettanze (NDC- Notional Defined Contributory per utilizzare il lessico internazionale), meccanismo che avrebbe dovuto funzionare come “pilota automatico”. Da un lato, l’invecchiamento della società italiana pare più rapido di quanto preconizzato nel 1995. Da un altro, il mercato del lavoro non è più caratterizzato da impieghi e carriere di lungo periodo, ma, a differenza di quanto stimato nel 1995, frammentato e con impieghi che si alternano a periodi di disoccupazione o di lavoro autonomo.

Eloquenti i dati del centro studi “Itinerari Previdenziali”: occorre cercare di equiparare le condizioni di coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, ed avrebbero un trattamento “contributivo puro”, con quelle dei “retributivi” e dei “misti”. Non solo per un elementare principio di equità (in un sistema “a ripartizione” come l’attuale sono costoro che finanziano i trattamenti dei “retributivi” e dei “misti”) ma anche perché se, come ci si augura, passata la pandemia, riprende la tendenza di una più lunga aspettativa di vita, i “contributivi puri” corrono il rischio di non andare in quiescenza prima dei 71 anni ed avere trattamenti inferiori dello stesso “assegno sociale” (oggi di circa 520 euro al mese). È essenziale che se e quando si aprirà il “tavolo” sulla previdenza non ci si focalizzi sulla transizione immediata da Quota 100 ma si abbia quella che gli anglosassoni chiamano the long view, ossia si guardi al medio e lungo periodo per iniziare da ora ad allestire una riforma graduale e progressiva che affronti i problemi di coloro che andranno in pensione tra vent’anni. La transizione, infatti, non può che essere graduale in quanto comporterà inevitabilmente un riassetto della spesa sociale, decurtando od eliminando poste meno prioritarie (ad esempio, il così detto “reddito di cittadinanza”).

Sulla base delle esperienze di Paesi che hanno risolto i loro problemi previdenziali, si può prendere l’avvio da una proposta di legge presentata nella quattordicesima legislatura: un sistema come uno sgabello a tre gambe, di cui due obbligatorie ed una volontaria, articolato su una gamba finanziata dalla fiscalità generale, una contributiva (agganciata alle retribuzioni) e una complementare (per chi può e vuole). Strada lunga ed impervia ma più tardi la si imbocca, più difficile diventa.


Bagehot


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