Lettera da Bruxelles
Vi sono due processi paralleli in corso a Bruxelles. Il primo riguarda l’agenda transatlantica, l’altro l’agenda delle riforme UE. Godono di fortuna diversa, anche in termini di visibilità, e non vanno di pari passo.
Come prevedibile, nella sua tappa bruxellese il presidente Biden è stato accolto e si è comportato da “kingplayer”. In due giorni ben tre vertici che sono stati un corpo unico, tre atti dello stesso dramma, con personaggi abituati a interpretare il ruolo di primo attore che hanno dovuto lasciare spazio al ritorno dell’America e di quello che molti, ma non tutti, chiedevano: la conferma del ruolo protettivo della NATO, l’ombrello nucleare, la condivisione dell’intelligence.
Biden è andato oltre: ha avviato un meccanismo di fornitura di gas all’Europa, senza precedenti, passo che da una parte rafforza le possibilità di uscita dalla dipendenza russa, ma dall’altra ne crea un’altra, più costosa, con un maggior impatto ambientale e con implicazioni politiche non gradite a tutti.
Inoltre, da Washington è arrivato il cartellino rosso verso Putin, e al di là del balletto delle correzioni di tiro, nessun presidente americano si era mai espresso con termini così perentori nei confronti della controparte russa. Rispetto alle tante telefonate che, finora senza alcun costrutto, i capi di governo europeo continuano ad avere con il Cremlino, Biden ha indicato ben altra linea, mandando un messaggio agli alleati ma anche al cerchio magico intorno a Putin. Un passo che potrebbe rivelarsi avventato, come altri compiti in passato con eccessiva disinvoltura oltreatlantico, e probabilmente concordato con Kiev, ma che è destinato a lasciare tracce. Putin ancora interlocutore oppure ormai irrimediabilmente nella lista dei criminali di guerra?
L’approccio europeo può essere diverso e le telefonate con Mosca continuare. Ma se esiste una “linea americana”, possiamo dire altrettanto di una “posizione europea”?
Finora il fronte dell’UE tiene con sorprendente unità e qualità – sostegno incondizionato all’Ucraina, sanzioni pesanti a Mosca, consenso politico non unanime ma diffuso sull’invio di armi, attivazione (per la prima volta) del Meccanismo di Protezione per far fronte ai milioni di rifugiati, “accelerazione prudente” sull’adesione di Kiev. Come abbiamo già scritto, Putin è diventato suo malgrado uno dei padri dell’Europa unita.
Rimaniamo tuttavia in un processo ibrido, essenzialmente fermo alla cooperazione inter-governativa. Vi sono almeno quattro sfide che costituiscono altrettanti ritardi al cospetto del sistema americano e reclamano una effettiva unità europea, ma in nessuna di queste aree assistiamo a un avvio di riforma.
La politica estera relega la dimensione europea a un coordinamento indispensabile, ma dove il protagonismo è ancora quello delle singole capitali; sulla difesa, l’Alto Rappresentante UE ha recentemente dichiarato in un’intervista televisiva che la priorità è la costituzione di una forza europea d’intervento rapido di qualche migliaio di effettivi, ha sottolineato che, messe insieme, le forze armate europee avrebbero una capacità molto superiore a quella russa e insistito sull’importanza di migliorare le sinergie interne.
Siamo, dunque, ancora al “coordinamento”, agli embrioni di piccoli contingenti, mentre non si parla di una difesa davvero comune almeno tra un nucleo duro di paesi membri. Sull’energia, il coordinamento esiste ma anche la cacofonia di soluzioni individuali per cercare fornitori alternativi, prezzi e fonti energetiche migliori in ordine sparso. Quanto al Meccanismo di Protezione, è un passo in avanti, ma siamo ancora lontani da una politica comune di asilo, e di fatto alcuni paesi stanno da soli sostenendo uno sforzo spropositato. Eppure tutte queste attese riforme – politiche estera, di difesa, energetica e di accoglienza – sono da tempo sul tavolo del dibattito, ciascuna è un mantra delle cose da fare e sempre rimandate.
La Storia intanto procede con le sue sfide, e l’Europa appare ancora lenta nell’aggiornare il suo assetto istituzionale. Basta osservare lo stato di avanzamento della Conferenza sul Futuro dell’Europa, i cui lavori in buona parte proseguono del tutto slegati dalle priorità poste da una guerra epocale – pare quasi che il “futuro” che si vuole delineare in quella importante assise appartenga a un altro mondo, a un’altra era. Gli ordini del giorno della Conferenza sembrano appartenere a un altro fuso orario, e non potremmo prendercela con Washington se la linea transatlantica non ci piacesse, incapaci di definirne una diversa con adeguata autorevolezza e forza istituzionale. Eppure una guerra così devastatrice è un evento unico per dare la scossa all’Europa, e paradossalmente un giorno potremmo perfino rimpiangerla, come una grande occasione persa per la maturità di un’Europa unita.
Niccolò Rinaldi
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