Lettera da Washington
Questa settimana è trascorsa all’insegna del processo a Trump al Senato. Era necessario? Era utile?
Per entrambi i quesiti è possibile solo una risposta positiva.
Occorreva riparare il “vulnus” inflitto alla democrazia dall’apparato di Trump. Avendo preso di mira le istituzioni fondamentali della nazione proprio negli ultimi giorni della sua presidenza, nel malcelato tentativo di prolungarla, non bastava prendere atto del verdetto elettorale espresso dagli americani lo scorso novembre quando esso stesso era messo in discussione.
Una condanna aperta avrebbe colpito la persona ma anche la politica di cui si era fatta portavoce, intessuta di falsità e di soprusi. Inoltre, avrebbe potuto portare alla sua ineleggibilità a vita. Impeachment e squalificazione sono due atti che sono nel potere del Senato e solo del Senato, e in una democrazia sono poteri gravissimi. A garanzia contro futili attacchi fondati solo sulla passione politica, la legge perciò va oltre la presunzione di innocenza e impone una maggioranza qualificata per comminare una condanna. I Democratici hanno pochi più voti dell’opposizione. La sola maniera per l’accusa di avere successo sarebbe stata, dunque, quella di provocare uno scisma nel partito Repubblicano, ma in seno a quel partito il timore di affrontare gli elettori in un futuro senza Trump non ha favorito il voto di coscienza.
Ma se era prevedibile che il voto finale sarebbe stato favorevole all’ex Presidente, ci si può chiedere che senso avesse lanciare una procedura predestinata a fallire. Di seguito vorrei sostenere che non solo era necessario spingere il Senato a pronunciarsi, ma è facendo così che si è cominciata a risalire la china.
Ecco alcuni spunti:
• Lanciare il processo al Senato non solo era un “atto dovuto”, ma era l’unica risposta possibile, dunque era irrinunciabile. Farne a meno equivaleva a condonare un attacco al cuore della democrazia americana e dare un segnale di via libera a qualsiasi futuro atto di sovversione. La Camera non poteva né ignorare, né sottrarsi, ed ha incriminato l’ex Presidente; il che a sua volta ha reso inevitabile la pronuncia del Senato. Non esisteva discrezione. Così entrambe le camere hanno fatto la rispettiva parte, ed hanno svolto il ruolo attribuito loro dalla Costituzione.
• Milioni di americani hanno seguito il processo sugli schermi; il loro verdetto non sarà così caritatevole come quello del Senato. L’esame è stato breve, ma intenso. Le macchinazioni di Trump in un giorno di torbide agitazioni sono state svelate dall’indagine, e tracciano i contorni di un tentativo disperato di rottamare le elezioni; milioni di cittadini incollati agli schermi ne hanno seguito la storia, passo passo, per giorni. La visualità della requisitoria, sostenuta da una eccellente regia da parte del deputato Rankin del Maryland che guidava l’accusa, anche se non è bastata a smuovere abbastanza senatori Repubblicani, ha certamente influenzato il pubblico che ne voleva sapere di più sulla sequenza del fatidico 6 gennaio quando - unica volta nella storia degli americani - il Campidoglio è stato attaccato dai propri cittadini. Il web è implacabile, e ne conserverà ogni particolare.
• Il quadro che ne è uscito è agghiacciante. Per mesi, prima del voto di novembre, Trump aveva insistito sul concetto che il solo risultato possibile delle elezioni fosse la propria inevitabile vittoria, introducendo l’idea che ogni diverso esito non avrebbe potuto essere che il risultato di brogli, complotti e corruzione. Assieme a questa premessa erano state messe in pre-allarme le milizie in vista di una futura mobilitazione (nelle parole di Trump, “stand back and stand by”, cioè fate un passo indietro e tenetevi pronti), elementi che sembrano confermare la premeditazione.
• È risaputo che, arrivati alla notte delle elezioni, Trump non ne ha atteso l’esito e ha approfittato del momento in cui godeva di un vantaggio per cercare, senza successo, di interrompere il computo dei voti (più o meno come era avvenuto in Florida nel 2000).
• Fallito ciò, a elezioni concluse ha avuto luogo un tentativo - anch’esso fallito - di forzare almeno uno Stato chiave a “trovare” i voti necessari a dargli la vittoria. Infine, il 6 gennaio, tra lui e la pubblica sconfitta non restava più che la persona del suo Vice Presidente.
• Pence quel giorno presiedeva la seduta del Senato in cui si sarebbe consacrato l’esito dell’elezione, una seduta di routine in cui si sarebbero sommati i voti elettorali provenienti dai vari Stati (come di fatto è avvenuto a conclusione della lunga turbolenta giornata, ormai all’alba del giorno dopo). Dopo aver cercato invano di convincere il Vice Presidente a bloccare i voti sfavorevoli, capito che Pence avrebbe seguito la legge e non il suo comando, Trump, prigioniero della sua stessa illusione, si è rivolto infine alla folla precedentemente radunata a manifestare in città, incitandola esplicitamente a marciare sul Campidoglio, inquadrata dalle milizie di cui sopra. Con ciò scatenava i suoi seguaci contro i due leader del braccio parlamentare del governo americano: Pence, che presiedeva il Senato, e Nancy Pelosi, Speaker della Camera. I manifestanti parlavano di uccidere entrambi, vociando di voler impiccare Pence (si erano muniti di una apposita rudimentale forca) e colpire Pelosi a rivoltellate. Si badi bene, qui non si parla di milizie in senso figurato, in un paese che conta più armi da fuoco che abitanti, né l’incitazione a combattere loro rivolta può essere considerata solo figurativa. Incitare a battersi assume un significato particolare quando non si rivolge a un cittadino qualunque, ma a un miliziano in piazza, in “stand by”. Che la violenza sia stata contenuta e il numero di decessi relativamente basso è merito non della temperanza dei manifestanti, né del freno dei loro manipolatori, ma dell’eroismo dei pochi difensori.
Si parla adesso, come ricaduta del procedimento parlamentare, di creare una commissione d’indagine indipendente sulla falsariga di altre nel passato, come quella sull’assassinio di Kennedy o quella sugli attentati delle due Torri gemelle. Questo verdetto ricorda un po’ quella che da noi è una assoluzione per insufficienza di prove - fattispecie che non esiste negli Stati Uniti - o in questo caso per insufficienza di voti; ma non diluisce la responsabilità politica degli eventi che ricade sull’ex Presidente, anche se lo lascia a piede libero. I suoi stessi sostenitori giustificano il proscioglimento con argomenti procedurali e non contestano la sostanza dell’accusa: si vedano le sorprendenti dichiarazioni a caldo del leader Repubblicano al Senato, McConnell, minuti dopo il verdetto, che si concludono ricordando che resta aperta ora la possibilità per Trump di essere incriminato davanti a un tribunale ordinario, dato che non è più coperto da immunità.
Non è quindi impossibile che l’ineleggibilità non diventi infine il risultato politico del processo, anche se non è stato quello giudiziario.
Ma se anche ciò accadesse, non per questo Trump può essere considerato cosa del passato. Se vivono ancora oggi in Europa i nostalgici del fascio, della croce uncinata, della falce e martello che hanno infestato lo scorso sventurato secolo, figuriamoci se non sopravviverà anche in sua assenza il popolo sulle cui spalle Trump si è propulso nella sua incredibile avventura.
Gli stimoli che hanno convinto milioni di americani a sostenerlo restano intatti. Anche questo merita riflessione. Non basta aver intaccato l’immagine del portavoce di questa distorsione della democrazia, non foss’altro perché il popolo di Trump merita l’attenzione che reclama. Occorre un dialogo; e in secondo luogo la successione di Trump, se questo fosse il fenomeno che stiamo osservando, apre la questione dei suoi effetti sul sistema bipartitico americano, su cui anche occorrerà riflettere.
Per il momento, dobbiamo registrare che questo è stato già un momento epocale. Milioni di americani sono rimasti incollati allo schermo per giorni, sei ore al giorno, per seguire le fasi del dibattito, ottenendo così anche un corso gratuito di diritto costituzionale, e si saranno fatti una propria opinione. Quando sarà decantata, Trump non se la scrollerà di dosso.
Franklin
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