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Il sesto pacchetto di sanzioni: un bicchiere mezzo pieno

Quando si osservano le decisioni e le vicende europee si può cedere alla tentazione di vedere il bicchiere mezzo vuoto. Tanto più quando i costi della guerra – anzitutto in termini di vite umane – inducono a indignazione e impazienza. Può essere così anche questa volta. Il sesto pacchetto di sanzioni, infatti, oltre a evidenziare la frattura tra un paese, l’Ungheria, e il resto dell’Unione, contiene due pesanti limitazioni: la prima è che l’embargo è parziale, perché esclude gli oleodotti per provare a tenere a bordo l’Ungheria; la seconda è che l’embargo è differito, perché entrerà in vigore solo alla fine dell’anno (un termine entro il quale non sappiamo quale sarò lo stato e la sorte della guerra). Sono due limitazioni importanti. La prima, oltre a introdurre i germi della divisione, introduce potenziali elementi di distorsione nel mercato europeo. La seconda mette a disposizione di Putin un tempo utile per correre, in certa misura e per quanto possibile, ai ripari esponendo l’Europa a ripercussioni sui prezzi che potrebbero, fino all’entrata in vigore dell’embargo, compensare almeno in parte la riduzione delle quantità che seguirà nel 2023.


D’altra parte, non si può negare che il sesto pacchetto di sanzioni costituisca un importante passo in avanti e che si debba guardare ad esso come a un bicchiere mezzo pieno. È inutile indulgere alla retorica dell’unità, perché questa sarà con tutta probabilità sottoposta ad altre e più difficili prove; ma è lecito sperare che il fosco pessimismo possa cedere il passo a un cauto ottimismo. Intanto perché, se è vero che un paese dissente, gli altri ventisei concordano.


E poi perché l’esenzione degli oleodotti riguarda solo un terzo delle importazioni di petrolio, il che significa che l’embargo riguarda i restanti due terzi e si colloca quindi ben al di là di un embargo a metà. E infine: occorrerà sì attendere la fine dell’anno per vederne l’attuazione, ma è innegabile che si tratta di un risultato che appariva assai lontano quando, all’inizio di aprile, fu presentato il quinto pacchetto di sanzioni (quello sul carbone) che non menzionava neppure il petrolio. Si faceva però allora strada l’idea che, a fronte dell’impraticabilità di un embargo immediato e totale – misura che sola avrebbe, forse, potuto fermare la guerra – occorresse “tosare”, per così dire, il flusso di valuta pregiata che, pur con le limitazioni introdotte con il congelamento delle riserve ufficiali e sulla operatività della Banca centrale russa, continuava nondimeno ad affluire nelle casse di Mosca.

Resta a questo punto da vedere quale sarà la reazione di Putin. La sospensione delle forniture di gas nei confronti di Danimarca e Paesi Bassi – dopo Bulgaria, Finlandia e Polonia – offre un assaggio. Il sogno di Putin (l’incubo dell’Europa) è di poter alternativamente spegnere la luce (metaforicamente e non) a questo o quel paese europeo, interrompendo cioè le forniture di gas e seminando divisione tra gli Stati e panico nell’opinione pubblica. Occorrerà prepararsi e restare saldi. Resta un fatto: che prima della guerra l’Europa importava dalla Russia il 25 per cento di greggio, ma la Russia forniva all’Europa il 50 per cento delle sue esportazioni di greggio. Dipendiamo gli uni dagli altri, ma la Russia dipende dall’Europa più di quanto essa non dipenda dalla Russia. Lo stesso vale per il gas: l’Europa importava dalla Russia il 40 per cento del gas di cui abbisognava, ma la Russia forniva all’Europa oltre il 60 per cento delle sue esportazioni. L’Europa può far leva su una posizione che non è monopsonistica (quella di unico acquirente) ma che è rilevante e che potrà essere fatta valere – potendo peraltro in questo campo adottare decisioni a maggioranza qualificata e non all’unanimità – introducendo una tariffa all’importazione di petrolio o un tetto al prezzo del gas.

Resta un problema aperto, e riguarda il fronte finanziario interno. L’Europa non può pensare di affrontare il costo di un embargo, parziale e differito ma comunque significativo, e contemporaneamente di affrontare il costo di una “normalizzazione” monetaria che significherà tassi di interesse nominali più alti – che peraltro solo in parte potranno contribuire a ridurre un’inflazione “importata” e dovuta in Europa più che negli Stati Uniti al costo dell’energia e non al surriscaldamento della domanda – non potrà, si diceva, fare fronte a questo duplice shock che avrà effetti sull’economia reale e sull’occupazione senza uno schema finanziario europeo che possa compensare o almeno mitigare gli effetti di un rallentamento dell’economia. Nel suo discorso al Parlamento europeo a Strasburgo il 3 maggio scorso il presidente Draghi ha detto che i bilanci nazionali da soli non sono sufficienti a far fronte alle sfide del presente. Ne pare sufficiente – si può aggiungere – mettere a disposizione la quota di prestiti inutilizzati del programma Next Generation EU.

Il dibattito tra le cancellerie europee sembra, su questo punto, in forte ritardo. Vi è una contraddizione di fondo nell’annunciare l’estensione fino a tutto il 2023 della sospensione del Patto di Stabilità e nel dire, allo stesso tempo, che sarebbe tuttavia meglio fare come se la sospensione non esistesse; oppure, come ha fatto di recente il ministro delle Finanze tedesco Lindner, che non si intende “nemmeno rischiare una recessione” a causa di un embargo mentre sarebbe implicitamente lecito correre il medesimo rischio per (provare a) tenere sotto controllo l’inflazione. Può darsi che siano le contorsioni di chi non intende trarre, non nei fatti, le conseguenze politiche (prima ancora che economiche) di questa guerra. Ma può darsi anche che si tratti di dichiarazioni necessarie a tranquillizzare i propri elettori, proprio nel momento in cui, con il sesto pacchetto, si imbocca la strada dell’embargo e dei costi che verranno. O ancora che servano essenzialmente a guadagnare tempo, sperando che il tempo risolva il problema.

Può darsi che solo il prolungarsi di questa tragedia induca a prendere coscienza della necessità di assumere decisioni compatibili con l’altezza degli obiettivi che ci si pone. Le sanzioni da momento di unità possono facilmente diventare uno strumento di divisione, se non si mette mano a uno schema finanziario europeo per condividere costi che sono diseguali. Chi sosterrà quei costi lo farà in nome di un interesse europeo, e non dovrebbe essere lasciato solo. Occorre un fronte unitario, come si conviene in una guerra, non soltanto nell’imporre le sanzioni ma anche nel governarne gli effetti. Perfino l’articolo 16 della Società delle Nazioni, che pure fallì nell’applicare le sanzioni all’Italia, propugnava il principio secondo cui i paesi che ne avessero approvate avrebbero dovuto tra di loro collaborare e sostenersi reciprocamente. È a dare consistenza a un principio di solidarietà di questo genere (che corrisponde allo spirito dell’articolo 122 del TFUE) che il settimo pacchetto di sanzioni dovrebbe anzitutto aprire le porte, insieme ad altre misure.


Le guerre hanno talvolta indotto a radicali correzioni di rotta nel corso della loro evoluzione. Può darsi – e occorre sperarlo – che sia così anche questa volta. Ma se così non fosse, ci troveremmo inevitabilmente a fare i conti o con decisioni troppo deboli per essere efficaci o con obiettivi troppo alti per essere raggiunti.


Giovanni Farese

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