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La crisi

In un editoriale di due mesi fa dal titolo “L’anno che verrà”, Il Commento Politico aveva cercato di descrivere la situazione politica che si sarebbe determinata all’inizio del 2021 e i riflessi che essa avrebbe potuto avere sul governo.

Avevamo scritto che l’evoluzione dei Cinquestelle verso posizioni di apertura ad una collaborazione non solo di emergenza con il Pd, la tentazione del Pd di far sentire più fortemente la propria voce in un’alleanza rimasta a galla soprattutto per suo merito dopo le elezioni regionali di fine settembre e il comprensibile desiderio di Matteo Renzi di rafforzare il peso suo e del suo partito in un governo nato prima che si costituisse Italia Viva, erano tutte condizioni che facevano prevedere un periodo di forte fibrillazione politica che avrebbe inevitabilmente coinvolto il governo Conte.

In queste settimane, a conferma di quella analisi, il governo Conte, nato per sterilizzare Salvini e l’IVA, dopo essere stato catapultato dalla pandemia sul solido piedistallo che tutte le grandi emergenze costruiscono, è stato richiamato all’ordine, pur con toni diversi, dalle forze politiche che lo sostengono, preoccupate dalla ripartizione dei fondi europei, dal risultato delle elezioni che si svolgeranno quest’anno in tutte le principali città italiane e dal miglior posizionamento da assumere in vista della elezione del prossimo Presidente della Repubblica, fissata nei primi mesi del prossimo anno.

Forse il presidente del Consiglio ha inizialmente sottovalutato gli elementi politici nuovi che si stavano palesando e non ha risposto tempestivamente al manifestarsi delle nuove circostanze politiche. Quando dalla fine di novembre, il Pd ha sollecitato un colpo d’ala senza ottenere una risposta; quando Italia Viva ha chiesto un riconoscimento più esplicito del suo ruolo e non ha ottenuto risposta; quando i Cinquestelle hanno cominciato a delineare una leadership interna ed hanno avuto l’impressione, invece, che il presidente del Consiglio fosse, pur senza dirlo, in qualche modo interessato a quella stessa posizione, il governo si è progressivamente indebolito, fino al punto che tutti i commentatori politici che ancora un mese fa tendevano a escludere che la situazione potesse giungere a una crisi di governo, oggi scrivono che la crisi è sostanzialmente aperta.

Non ritenevamo allora, e ancor meno riteniamo oggi, che una crisi di governo avrebbe come sbocco lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate: gli sviluppi in seno ai Cinquestelle avvenuti nei mesi scorsi portano a concludere che di fatto si sia formata una maggioranza politica destinata a restare in piedi qualora si apra la crisi. Tuttavia, può darsi che il presidente del Consiglio possa in extremis evitare la crisi con un piccolo rimpasto o con un ampio rimpasto, che ora però rischia di mettere in imbarazzo sia il governo che i partiti della maggioranza davanti all’opinione pubblica. Ma ormai, definito più o meno il perimetro della maggioranza, la crisi investe soprattutto il presidente del Consiglio. La prova è in quello che si legge sui giornali in queste ore affannose, è cioè che il punto su cui tutte le forze politiche di maggioranza sembrano d’accordo è che ci vuole “una forte iniziativa” da parte del Presidente del Consiglio. Questo vuol dire che la crisi ormai mette in questione proprio il professor Conte, che fino a qualche settimana fa sembrava disporre di una posizione solidissima.

Giunti a questo punto, riteniamo che il presidente del Consiglio abbia tre strade davanti a sé fra le quali è ancora in condizione di scegliere.

La prima è trovare una transitoria quadra alle difficoltà di fondo che la nuova situazione pone al suo governo e sperare che qualcosa possa tornare a rafforzare la posizione dell’esecutivo. È forse la soluzione più probabile in quanto, per chi lo abita, il permanere a qualsiasi costo a palazzo Chigi appare una seducente sirena. È ciò che a diverso titolo tutte le forze di maggioranza a parole auspicano. Spetterà così a Conte gestire la terza ondata della pandemia, la difficile situazione della scuola ed un piano vaccini che si ripromette di essere condizionato da un sistema sanitario diviso in venti esarcati, mentre è venuta meno qualsiasi parvenza di collaborazione con le Regioni. All’inizio del semestre bianco, è probabile che un Parlamento non più a rischio concluderà la legislatura senza di lui, essendo venuto largamente meno quel consenso che tuttora accompagna il presidente del Consiglio.

La seconda è prendere atto che una stagione è finita e, senza attendere sollecitazioni esterne, andare dal Capo dello Stato e dimettersi. Irrevocabilmente. Come il civil servant che ha fatto il tratto di strada che era stato chiamato a percorrere. Forse ancora oggi le forze politiche che lo sostenevano avrebbero difficoltà a scegliere un altro nome. Ma forse è già passato troppo tempo.

È singolare che da giorni in molti si affannino a dichiarare che non si deve aprire una crisi al buio. Una crisi è al buio se non c’è una maggioranza o se il Presidente della Repubblica è privo del potere di scioglimento e cioè dello strumento più persuasivo per far trovare un’intesa a partiti unanimemente concordi nel non volere le elezioni.

C’è infine una terza via che sommessamente adombriamo. Separare il territorio della politica tout court da quello dell’azione di governo. L’Europa attende risposte, sia politiche, sia di corretta utilizzazione delle risorse che ci mette a disposizione.

Il governo lasci allora alle forze politiche il compito di trovare un punto di equilibrio tra le loro diverse sensibilità nella ripartizione del Next Generation EU. Come gli ultimi giorni hanno ampiamente dimostrato, il Piano italiano è lungi dall’essere pronto e i progetti che lo compongono sono lungi da essere considerati convincenti dallo stesso governo, se lo stesso ministro dell’Economia ritiene più prudente rinunciare a parte dei fondi europei per la preoccupazione che iniziative irrealizzabili possano trasformarsi in aumento del debito.

Conte potrebbe dichiarare di voler riservare a sé il compito di garantire che le scelte politiche si rivelino utili per far ripartire lo sviluppo e l’occupazione, cioè garantire la qualità dei progetti e la loro efficace effettuazione. In fondo questa doveva essere la sua preoccupazione quando aveva proposto – in effetti in modo alquanto improvviso e improvvisato - sei task force per l’implementazione del Piano italiano.

Concentrarsi sulla corretta governance del Piano non solo sarebbe in linea con la sua figura fin qui percepita come super partes, ma sarebbe la risposta agli interrogativi che sempre più pressanti giungono dall’Europa ed in particolare dal Commissario Gentiloni.

Romano Prodi ha autorevolmente concluso gli interventi del Seminario congiunto fra Assonime e Fondazione Ugo La Malfa dicendo che il Piano dovrebbe consistere di pochi grandi programmi significativi su cui impegnarsi a fare ciò che si è scritto. Lo pensiamo anche noi. Il presidente del Consiglio potrebbe scegliere questa strada e creare, come da tempo suggeriamo, una struttura ad hoc. Un numero di telefono sicuro che Bruxelles possa chiamare. Una sede guidata da una figura autorevole che garantisca la migliore allocazione delle risorse e di conseguenza le condizioni da cui dipende il futuro del Paese. Questo lo collocherebbe al di là e al di sopra della querelle fra i partiti.


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