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La crisi ucraina e il ruolo sospeso di Bruxelles


Lettera da Bruxelles


Lo abbiamo già scritto: qualunque sarà l’esito della crisi, per la società ucraina la questione cruciale è la prospettiva di adesione all’Unione Europea, più che quella alla NATO. Il ruolo di Bruxelles è quindi in buona parte sospeso, rimandato a quando i cannoni lasceranno il palcoscenico, e nel frattempo l’Europa assiste sconcertata alle mosse degli uni e degli altri. Questa è una crisi speciale, dove il gioco delle dichiarazioni e dei dispiegamenti, dei piccoli colpi di scena attesi ma disattesi, viene frainteso come un’incertezza di fondo delle parti in causa e addirittura rafforzato dal vecchio complesso di superiorità europeo nei confronti dell’America, percepita spesso come superficiale o confusa.


Da par suo, come anche accaduto in Afghanistan o in Corea del Nord, Biden pare perseguire una linea mascherata da debolezza, che sta invece mettendo Putin in una posizione impossibile da sostenere. Il continuo allarme sull’invasione imminente sfocia spesso in un’ostentata provocazione verso il rivale, eppure i contro-preparativi militari sono irrisori: appena tremila marines, nessun cordone navale a protezione di Odessa – quasi un incoraggiamento alle mire espansionistiche russe.


Biden pare rimettere continuamente la palla nel campo di Putin, trattandolo da rivale storico, sfidandolo a fare la sua mossa, e confidando che qualunque essa sia, sarà sbagliata per la Russia e vantaggiosa per l’America.

Mosca infatti ha l’opzione di limitarsi a entrare nel Donbass, magari incorporandolo nella Federazione come la Crimea. Le conseguenze militari dovrebbero essere circoscritte (i condizionali abbondano tra questi scenari di guerra) e la vittoria facile. Tuttavia, dopo i mille ostentati avvertimenti di Biden, anche l’Europa non potrà che varare sanzioni molto più rigide, rinunciare a certe relazioni privilegiate con Mosca, abbandonare il gasdotto e controbilanciare accelerando il processo d‘integrazione dell’Ucraina nell’UE.


A Kiev, poi, gli anti-russi la farebbero da padroni. La Russia si troverebbe più isolata, il lungo lavoro di riavvicinamento promosso anche da alcune capitali europee dopo l’annessione della Crimea svanirebbe in un baleno. A Mosca non resterebbe che abbracciare più forte la Cina, fino a restarne soffocata, mentre Biden rafforzerebbe la sua influenza in Europa. Il tutto, per la Russia, in cambio di qualche territorio che pur avendo un valore strategico e simbolico assai minore della Crimea, finirebbe per pagare molto più caro.

Una seconda opzione per Putin è puntare al cuore dell’Ucraina, eventualmente passando attraverso il Mar Nero. A Kiev sarebbe instaurato un governo pro-russo e il paese, con le immense ricchezze di materie prime, tornerebbe sotto il controllo russo. Ma un tale attacco rischia di trasformarsi in una guerra civile all’interno dell’ex-spazio sovietico, in Ucraina Putin non potrebbe adottare gli stessi metodi impiegati in Cecenia. L’effetto di disgregazione che ebbe all’epoca la Primavera di Praga sarebbe ben maggiore, e si scaverebbe un solco profondo nei rapporti tra Ucraina e Russia, tra i tanti russi democratici e quelli legati all’idea post-sovietica, tra Russia e America, e anche tra Russia e Unione Europea. Per Biden forse sarebbe l’opzione migliore: l’invasione dell’Ucraina potrebbe rappresentare l’inizio della fine di Putin.


Al Cremlino potrebbe quindi convenire limitarsi all’attività muscolare lungo i confini e niente più – ed è anche possibile che questa sia stata la sua intenzione sin dall’inizio. Ma a questo punto della crisi, dopo tanti avvicendamenti sul terreno, accontentarsi dello statu quo apparirebbe come il risultato degli avvertimenti americani. Il presidente americano sarebbe riuscito a tenere a bada, senza nemmeno aver schierato le truppe, la minaccia di centocinquantamila russi armati di tutto punto. Sarebbe la vittoria della politica sulla minaccia armata.

Biden ha affrontato la sfida ucraina quasi come un duello personale, non da cow-boy pistolero, ma da scaltro giocatore di poker. A Putin lascia la scelta di bleffare senza reggere il rilancio, oppure di scoprire le carte e mettere sul tavolo una posta troppo alta che rischia di essergli fatale. Un gioco astuto e pericoloso, perché bisogna sempre mettere in conto la possibilità che “il banco salti”, che l’avversario abbia l’asso nella manica.

È una partita nella quale gli europei hanno i loro interessi – un’Ucraina dalla loro parte, la salvaguardia di un rapporto decente con Putin e un accesso al suo gas e al suo mercato. Nell’assenza ostentata della diplomazia dell’UE (una ricerca in rete con “EEAS Ukraine” dà risultati anacronistici per chiunque voglia affermare una politica estera comune), i ministri europei hanno fatto la spola tra Mosca e Kiev per parlare con tutti e scongiurare il peggio. Mentre agli ucraini non resta che rassegnarsi e combattere, con la consapevolezza che l’America li ha incastrati in una partita che un giorno li libererà, ma che è lunga, rischiosa, più grande di loro. Una di quelle situazioni nelle quali l’appartenenza alla rassicurante e ingenua Bruxelles diventa una forma di irresistibile nostalgia.


Niccolò Rinaldi

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