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Perché il rublo per ora non crolla

Alla lunga in una guerra contano più le riserve ufficiali (oro e attività in valuta pregiata) che i riservisti. Se la moneta crolla, e per difenderla le riserve si assottigliano, (quasi) tutto è perduto.


Nel 2014 un dollaro si scambiava contro 30 rubli. A metà febbraio ce ne volevano 80. Due settimane fa 140. Oggi circa 100. Perché dunque, se le sanzioni stanno funzionando, il rublo non continua a rovinare, come pure aveva iniziato a fare? Perché il suo prezzo riflette in misura crescente azioni, condizioni e decisioni amministrative e politiche, e in misura calante le forze di mercato, cioè in altre parole non è più un prezzo di mercato.


Vi sono, in essenza, cinque ragioni: tre sono interne e due esterne, di cui una legata all'atteggiamento dell’Occidente e una a quello della Cina. Alcune sono basate su fatti, altre su aspettative. E le aspettative, in fatto di moneta, contano.


La prima ragione sono i controlli valutari introdotti di recente dalla Banca centrale russa. I ricavi in valuta pregiata derivanti da esportazioni di imprese russe devono essere convertiti, per l’80 per cento, in rubli, e questo ne sostiene il corso.


La seconda è il brusco rialzo dei tassi di interesse, in un balzo e in un colpo dal 9,5% al 20%, che servono in certa misura a evitare una ampia fuga dei capitali.


La terza è l’utilizzo - non sappiamo in quale entità, probabilmente ingente - delle riserve ufficiali, specie quelle in oro, che sono tra le più cospicue al mondo e che la Russia è venuta via via accumulando in modo esponenziale e sistematico dopo l’invasione della Crimea nel 2014 proprio a scopo precauzionale, per ogni evenienza.


Due terzi di esse, detenute in banche centrali in Occidente e denominate in euro o dollari, sono state congelate con una decisione senza precedenti per ampiezza, profondità e rapidità (anche se una certa quota dei depositi in valute forti deve aver preso la strada off-shore). Il restante terzo è, per la maggior parte, oro detenuto in Russia, per la parte minore yuan presso la Banca centrale cinese. Questo terzo non può perciò essere congelato. Ed è dunque sull’oro che la Russia fa primariamente affidamento in questa fase, tanto che i leader del G7 hanno annunciato misure mirate, per evitare che la cessione di oro a paesi terzi possa consentire alla Russia di acquisire liquidità e così tirare avanti.


La quarta ragione è il differimento, da parte dei paesi del G7 (esclusi Regno Unito e Stati Uniti) e dell’Unione Europea, di una decisione intorno alla sospensione dell’import di gas e di petrolio russo. È un punto delicato, ma che resta decisivo.


La Russia continua intanto a esportare e con tutta probabilità accumulerà anche quest’anno un ampio surplus di partite correnti, anche perché il crollo dell’attività economica ridurrà contemporaneamente l’import. L’export di energia continuerà a finanziare la guerra e sostenere il rublo.


La Banca centrale europea stima per l’area euro una perdita di PIL di 1.4 punti, da 3.7 a 2.3, qualora si decidesse di sospendere l’import di energia dalla Russia. Sono valori medi per l’area nel suo insieme, sicché sarebbero più alti per Italia e Germania (ma forse anche più alti in generale). Tuttavia, come ha scritto Martin Sandbu sul Financial Times, dovremmo forse a questo punto cambiare la nostra prospettiva, e chiederci non tanto quale è il costo da pagare per la guerra, ma quello per il conseguimento dei nostri obiettivi.


La quinta e ultima ragione è che le sanzioni contano in ragione di chi partecipa all’alleanza, ma anche di chi non vi partecipa. “It is the alliance, and not the finance, that matters”, ha scritto Adam Posen su Foreign Affairs. Questo vale anche per le contro-alleanze (paesi come Brasile, India, Indonesia o Turchia non hanno adottato le sanzioni, ma questo non significa che faranno fronte comune).


L’ambiguità della Cina in particolare lascia in sospeso un suo ruolo eventuale, per quanto ridotto, come lender of last resort della Russia. Come ha spiegato Paola Subacchi su Aspenia, tra le due banche centrali esiste un accordo di swap in yuan, ma esso è piuttosto limitato nella sua entità e portata. In ogni caso non sembra credibile né forse possibile che la Cina, la cui ascesa richiede tempi medio-lunghi, rinunci, e d’un colpo, alla larga e liquida infrastruttura della globalizzazione, che è ancora centrata sul dollaro e sugli scambi con l’Europa e gli Stati Uniti, in nome della alleanza “senza limiti” con la Russia.


Come si può ben vedere, nessuna delle pur alte barriere che oggi proteggono e stabilizzano il rublo è del tutto invalicabile, specialmente non lo sono quelle che dipendono da alleanze e da fattori esterni e che si decideranno non a Mosca magari con annunci a effetto (rubli contro gas), ma a Bruxelles, Pechino e Washington.


Giovanni Farese

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