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Timori e tremori di una nuova stagflazione

Qualche ricerca accademica e alcune testate internazionali, tra cui l’autorevole The Economist, mostrano all’orizzonte l’affacciarsi un vecchio fantasma: la stagflazione, ossia la miscela esiziale tra inflazione e stagnazione.

Questa volta le determinanti appaiono differenti. Da un lato, le previsioni economiche indicano concordemente una ripresa molto lenta: quelle recentissime della Commissione europea suggeriscono, ad esempio, che l’Italia ed altri maggiori Paesi dell’Unione europea dovranno attendere almeno sino a fine 2023 per tornare ai livelli di produzione, di reddito e di consumi di fine 2019. Da un altro, la storia economica ci insegna che al termine di una pandemia si verificano aumenti dei prezzi, anche e soprattutto per strozzature dal lato dell’offerta, mentre la domanda tenta di tornare ai livelli di consumo che precedevano la calamità.

Tali strozzature cominciano a vedersi; ad esempio, le tariffe per i trasporti di cargo su navi transoceaniche sono quasi raddoppiate in un anno e l’aumento dell’uso di strumenti di comunicazione ad alta tecnologia (dagli smartphones, ai tablets, ai PC) è stato molto più rapido dalla produzione di semiconduttori, con la conseguenza che in un comparto in cui i prezzi diminuivano da anni ci sono ora segni di aumenti. Ci sono segnali pure nel mercato delle materie prime: oltre al prezzo del petrolio stanno aumentando i corsi del cobalto, del rame, del nickel e di altri metalli. L’incremento delle quotazioni del petrolio dipende dall’offerta: la decisione dell’Arabia Saudita di contenere la produzione, i ritardi dei piani d’investimento in molti Paesi produttori africani, la riduzione delle esportazioni dall’Iran. L’aumento dei corsi dei metalli, invece, è in gran misura la conseguenza di un rilancio dei programmi d’investimento in Cina, dove la pandemia è nata ma è ora circoscritta in poche grandi città.

L’ufficio studi della Bank of England ha condotto una ricerca in cui conclude che un anno dopo la fine della pandemia si è di solito in inflazione. Un aumento rapido dei prezzi si verificò dopo la “peste nera” del tardo Medioevo: carenza di beni essenziali e corsa all’accaparramento. Un lavoro di Robert Barro e di suoi colleghi dell’Università di Harvad ha studiato meticolosamente l’inflazione che ha fatto seguito alla influenza “spagnola” del 1918-20 e che è stata una delle determinanti dell’avanzata di movimenti autoritari in numerosi Paesi europei.

A queste determinanti, per così dire, «congiunturali», si sommerebbe una determinante «strutturale», analizzata da Charles Goodhart nel saggio The Great Demographic Reversal scritto con Manoj Pradhan. Secondo Goodhart, noto soprattutto per i suoi studi di economia monetaria, l’inflazione non sarebbe stata domata dall’abilità dei banchieri centrali ma dallo spostamento della produzione manifatturiera verso aree (principalmente la Cina) caratterizzate da popolazione giovane, addestrata e disposta a lavorare a bassi salari. Ora questa determinante si è affievolita sino a scomparire a ragione, da un lato, dell’invecchiamento della popolazione anche in Estremo Oriente e, dall’altro, della richiesta di remunerazioni più alte e di una rete di protezione sociale anche in Paesi caratterizzati da bassi salari e dalla inesistenza di un sistema di welfare.

Questi segnali pongono domande di politica di bilancio e di politica monetaria che non si possono eludere.

L’ Osservatorio dei Conti Pubblici dell’Università Cattolica ha pubblicato il12 febbraio un’analisi delle politiche di bilancio in risposta alla pandemia, riassunta in questa tabella:



Ad una recessione che per la prima volta ha colpito l’intera economia mondiale sono corrisposti ovunque aumenti straordinari dei deficit e dei debiti pubblici. Guardando ai principali paesi avanzati, gli aumenti sono stati molto differenziati. L’Italia è fra i paesi che hanno aumentato molto il deficit complessivo (+9,3 punti, al 10,9 per cento). Soprattutto, l’Italia è il paese che ha più di tutti aumentato il debito pubblico in rapporto al Pil (+22,9 punti, al 157,5 per cento). Questo record negativo si verifica malgrado altri paesi abbiano registrato sia un deficit/Pil più alto sia una recessione più profonda; esso è dovuto al fatto che una recessione provoca un maggiore aumento del debito nei paesi in cui il livello iniziale del debito è più alto. Questa considerazione conferma ancora una volta la fragilità finanziaria dell’Italia a fronte di shock esogeni negativi. Tuttavia, sembra che l’Italia abbia attuato politiche molto simili a quelle degli altri paesi, sia per quanto riguarda i rinvii o cancellazioni di imposte, sia per quanto riguarda le spese discrezionali di sostegno all’economia.

Sotto il profilo della politica di bilancio, occorrerebbe fare marcia indietro e tornare a strategie improntate a maggiore cautela?

Sotto il profilo della politica monetaria, la Federal Reserve Usa e la Banca centrale europea dovrebbero cambiare la linea tenuta con il Quantitative Easing (QU) ed accentuata in Europa con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEEP)?

I segnali di stagflazione sono ancora deboli per mettere in atto una sterzata di politica di bilancio e di politica monetaria come suggerito sia da alcuni economisti sia dalla pubblicistica.

Meritano, però, di essere monitorati con attenzione.


Bagehot


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