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Un cambio di passo nella lotta alla pandemia

La lotta alla pandemia da Covid19 cerca di uscire dal clima di polemiche che l’ha accompagnata in tutti questi mesi per indirizzarsi verso una forte centralizzazione dell’organizzazione e delle decisioni. Per farlo, Draghi ha sostituito il commissario “a tutto” Domenico Arcuri con un generale con grande esperienza di comando e, fino ad oggi, a capo della più complessa ed efficiente organizzazione logistica dello Stato, quella militare. Le gravi carenze e le approssimazioni dell’organizzazione della lotta al virus erano del resto sotto gli occhi di tutti. Dallo scandalo delle mascherine d’oro, su cui indaga la Procura di Roma, alle costosissime “primule” dell’architetto Boeri, l’unico peraltro ad avere lavorato gratis, alla confusione di competenze tra stato e regioni, con tutte le conseguenti inefficienze e sperequazioni nella somministrazione dei vaccini, fino alla ridicola parata del primo carico Pfizer, condotto in processione e con telecamere al seguito in camion dal Belgio a Roma, per poi essere distribuito dai mezzi, guarda caso, dell’esercito in quelle stesse aree che già aveva attraversato per raggiungere la capitale, è stato tutto un susseguirsi di errori, ritardi, sprechi faraonici di denaro pubblico, attenzioni esasperate all’immagine più che alla sostanza, risposte non date e disarmanti ingenuità, a volere essere generosi, nei confronti delle lobby di settore. Tutto questo, e il proseguire su questo andazzo, rischiava di svuotare di efficacia la stessa campagna vaccinale a fronte di un incremento esponenziale dei contagi indotti dalle nuove varianti del virus, ancora e sempre più rapido ed efficiente nello svolgere il suo devastante lavoro sulla comunità nazionale. A ciò si è aggiunta l’incapacità di gestire in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale la lotta alla pandemia, lasciando spazio a rivendicazioni di autonomia organizzativa a chi aveva ampiamente dimostrato di essere totalmente inadeguato.

La nomina del generale Figliuolo, che peraltro arriva dopo che più volte si è già dovuto fare ricorso alle competenze dei militari per fare fronte ai momenti più complessi della gestione del dramma sanitario, segna la certificazione di una divaricazione esistente da tempo tra la capacità di acquisire competenze da parte degli uomini delle forze armate, e la progressiva perdita di cultura e capacità operativa da parte del personale civile della macchina statale, soffocata da una melassa burocratica che ne rende lenta, farraginosa e spesso inutile, quando non dannosa, l’azione. La nostra organizzazione militare ha potuto formare i propri quadri di comando nei teatri di crisi più impegnativi e pericolosi del mondo, dalla Somalia al Kossovo, dall’Iraq all’Afghanistan, soprattutto negli aiuti alle popolazioni civili e nell’organizzazione di sistemi complessi di gestione delle emergenze estreme. L’esatto opposto di quanto avvenuto nell’ambito civile, dove l’incapacità politica di una classe di governo sia nazionale che, soprattutto, locale, autoreferenziale e progressivamente sempre più scadente, di fornire, per mancanza di competenze, efficaci linee di indirizzo all’azione degli uffici operativi, ha finito per fare deteriorare la qualità di una burocrazia sempre più chiusa nel fortino delle sue sterili liturgie semantiche.

Il Covid19 sta dunque impartendo una dura lezione alle istituzioni civili e democratiche del paese, ma soprattutto ha spazzato via la polverina sbrilluccicosa dell’autoreferenzialità che copriva la realtà di un sistema sanitario da tempo non più nazionale ma, per mero calcolo di potere, polverizzato in 20 sistemi diversi con venti diversi livelli assistenziali, paralizzato e sfruttato clientelarmente da una burocrazia di partito sempre più pervasiva, sprecona e disinteressata alla sua missione principale di prevenzione e cura delle patologie.

Ma la lezione del Covid sarà risultata inutile se la politica non ne trarrà le dovute conseguenze e non si armerà del coraggio necessario per ridisegnare il sistema sanitario risolvendone le criticità.

In particolare: 1. non può più essere tollerata l’esistenza di un federalismo sanitario che rende diseguale l’accesso dei cittadini alle cure, 2. non è più rinviabile una riforma della medicina del territorio che porti al domicilio dei cittadini, soprattutto fragili, anziani e soli, la diagnostica e la somministrazione di terapie che oggi la tecnologia digitale consente, anche utilizzando adeguatamente le competenze professionali paramediche che le nostre università formano nei loro corsi di laurea, sia triennali che magistrali, riducendo significativamente la pressione sugli ospedali e i pronto soccorsi, 3. è necessario risolvere il perverso e irrazionale intreccio tra committente, erogatore e controllore dell’offerta sanitaria, oggi unitariamente in mano allo stesso soggetto, 4. occorre togliere dalle mani della politica la nomina dei Direttori Generali delle Aziende Sanitarie, introducendo un sistema che ne valorizzi le competenze e i risultati, 5. è indispensabile sburocratizzare i livelli decisionali restituendo al personale sanitario il proprio ruolo e, di conseguenza, il proprio prestigio, e determinarne le carriere in base alle capacità tecniche e scientifiche e non in base alla vicinanza al padrino politico o sindacale di turno.

Da ultimo, ma non di minore importanza, rivedere sia il sistema dei concorsi universitari delle Facoltà di Medicina, oggi troppo legati agli indicatori scientifici e pochissimo alle capacità professionali, ricordandosi che le università devono formare professionisti capaci (non è possibile, ad esempio, che diventino professori di chirurgia soggetti che non sanno innanzitutto operare), sia la “precarietà” accademica, che va ribaltata. Infatti la permanenza in ruolo in base agli obiettivi scientifici, didattici e professionali raggiunti dovrebbe riguardare i professori, non i ricercatori, perennemente precari e dunque difficilmente reclutabili.

Legare la permanenza in ruolo dei professori agli obiettivi raggiunti, precarizzandoli, è forse l’unico sistema per far sì che nei concorsi di accesso dei ricercatori si privilegi il merito, indispensabile per garantire un’adeguata produzione scientifica e adeguati risultati professionali dei professori stessi.


Cesare Greco

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