Con questo articolo Il Commento Politico apre la rubrica Lettera da Washington per seguire, fin dai primi passi, l’attività dell'amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden
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Trump è partito sgarbatamente per Miami, e il laconico Pence - gettato ai lupi - si è ritirato nell’ombra. Melania è salita a Washington su “Air Force One” vestita da First Lady in lutto, ma a Miami è scesa una donna sgargiante che davanti alle telecamere si è rapidamente incamminata per i fatti suoi, lasciando l’impressione di non poterne più del marito; una illustrazione rudemente esplicita della fine del mandato. Ma non la fine della storia.
Sarebbe stato bello ora pensare che abbiamo visto il “lieto fine”, e che il mondo sia rientrato nell’alveo del suo corso naturale, lasciandoci indietro il quadriennio di Trump, alla deriva nella scia della storia.
Ma non siamo a quel punto. Il sussulto popolare che ha dato forza a Trump è un’onda di fondo, nata da una inattesa saldatura tra repubblicani radicali e sanculotti libertari, e prima di disperdersi nel mare aperto deve ancora dissipare la sua energia. Il voto di novembre lascia entrambi i partiti tradizionali zoppicanti, ciascuno alla ricerca di una base solida per le prossime sfide.
Per i Democratici, occorre ora governare, e cercare di cementare i voti che hanno portato al successo in novembre. Non si tratta tanto di carpire nuovi appoggi, quanto di assicurare che i votanti record del novembre scorso restino pronti a ripetere la prodezza. Questo significa, tra l’altro, l’elettorato afroamericano e femminile, che ha incoronato Biden in novembre.
Per i Repubblicani, il quesito è: esorcizzare Trump, e rifondare la profonda dignità del partito, o aggrapparsi alla base che non si dà per vinta? La seconda alternativa parte in vantaggio. Il Grand Old Party, il GOP, che pure è stato il partito di Lincoln, fin dagli anni ’60 attinge ai voti del vecchio sud, cioè di un elettorato che da un secolo e mezzo vive negando la sconfitta. Perché accettarla adesso? Nulla di nuovo quindi.
Dodici anni fa avevamo accolto Obama alla Casa Bianca con un primordiale senso di sollievo (un grande torto storico viene rimediato, abbiamo pensato, si è voltata la pagina). Poi la realtà ci ha raggiunto.
Guardiamoci dunque dalle illusioni premature. Trump è a piede libero, e non ha finito di fornire materiale alla prime pagine dei giornali.
Di seguito, alcune note sul perché.
1. L’orizzonte è il novembre del 2022. Il ciclo elettorale americano è implacabile: tra venti mesi si vota di nuovo per l’intera Camera dei Rappresentanti, per un terzo del Senato e per una varietà di cariche negli Stati. I Democratici hanno vinto lo scorso novembre, ma è stata una vittoria di Pirro: la maggioranza che avevano alla Camera ha perso seggi e quella ottenuta al Senato è stata raggiunta per un capello, e per miracolo.
Poiché a metà ciclo presidenziale chi governa di solito perde qualcosa, se anche nel 2022 ciò dovesse accadere, la seconda metà della presidenza Biden sarebbe buona solo per scrivere le memorie. I Repubblicani hanno perso una battaglia, ma sono a portata di rivincita.
Perciò il successo del governo nei prossimi mesi sarebbe per i Democratici il biglietto per vincere nel 2022, e determinerà quello dell’intera presidenza. Ciò significa, in concreto, COVID, economia, pace sociale; all’estero, il senso che l’America abbia riguadagnato il rispetto che sente dovuto.
In questi giorni si affronta il primo ostacolo/obiettivo. La procedura di impeachment contro Trump non è solo un atto dovuto, e potrebbe teoricamente risolversi in un vantaggio risolutivo per i Democratici, decretando la ineleggibilità a vita dell'ex Presidente. Ma è davvero difficile prevedere una condanna, quando il successo dell’accusa (nonostante tutto sia avvenuto in pubblico e con le telecamere accese) dipende dal reperimento di diciassette senatori repubblicani disposti ad immolarsi sull’altare della verità per raggiungere il quorum necessario ed archiviare per sempre Trump. Che ve ne sia una decina di “possibili” è già un tributo alla democrazia americana, un esempio degno del Foro romano dei tempi eroici.
Naturalmente, resterebbe sempre la creatura che lui ha scatenato, e che oggi è una componente irrinunciabile della piattaforma elettorale del GOP. La posta in gioco al Senato non è dunque in fondo così grande come parrebbe. Resta che il partito Democratico nei mesi scorsi si è nutrito in modo rilevante dalla ripulsione generata dallo stesso Trump presso i moderati, e Trump resterà dunque ancora minaccioso, e contribuirà a tenere uniti anche i progressisti.
È curioso, dunque, che Trump resti oggi il miglior cemento sia per la sinistra americana sia per la destra, la quale non sembra sentirsela di abbandonarlo al suo destino.
2. Il che porta il discorso sul decapitato partito Repubblicano. Questo è stato battuto, nel novembre scorso, non tanto per aver perso potenziali elettori sedotti da Biden o scoraggiati da Trump, ma per aver perso la gara all’allargamento della base elettorale, che i Democratici avevano da tempo individuato come la chiave di volta della vittoria.
È vecchia, triste consuetudine che negli Stati Uniti si ostacoli il voto, invece di incoraggiarlo; è una politica facilitata dal GOP, che vede nel suffragio universale un pericolo con l’accesso alle urne dei cittadini appartenenti a categorie meno favorite, potenziali votanti per il partito rivale. Il partito Democratico spende perciò energia e denaro in grande quantità proprio per assicurare il contrario, e assicurare globalmente il più massiccio accesso alle urne. Quest’anno la gara all’inclusione di nuovi votanti è stata vinta epicamente dai Democratici, ma ha consentito anche un aumento dei voti repubblicani, e nessuno pensa che sia un male.
Per Trump, non è stata solo una sconfitta: è stata una sconfitta che con le sue successive intemperanze è diventata una vergogna. La questione per i Repubblicani è ora se sia possibile rinunciare a lui pur conservando il suo elettorato, da cui ormai dipendono; oppure ingoiare la pillola e rinnegare la nobile tradizione del passato (fu il partito di Lincoln…) andando a Canossa, cioè a Mar A Lago. Dichiararsi dunque oramai come solo il partito di Trump, e non più anche quello di Reagan o di Eisenhower.
È il cammino più probabile. Se poi fosse possibile tenere lontano Trump dalla Casa Bianca ma presente sui luoghi dei comizi politici, il gioco sarebbe fatto. Una alternativa senza Trump, invece, richiederebbe quasi una rifondazione: il passaggio dal partito di Romney e McCain a quello di Trump si è fatto in un balzo solo, ma tornare indietro è difficile. Dunque il pronostico non è roseo; e le conseguenze sarebbero gravi: una sanzione della illegalità, una strizzata d’occhio alla violenza, e un profondo colpo alla democrazia in America — e da qui, nel mondo.
3. Dal canto suo, Biden approfitta oggi di una lieve brezza a suo favore, e la coltiva. Anzitutto lo stile, come si è visto, è stato subito riportato alla tradizione che piace agli americani ricordare, quella anche se un po’ fantasiosa immortalata da serials come “West Wing”. Il pubblico ha reagito con un sospiro di sollievo, la tensione si è allentata e il Presidente, sapendo di avere poco tempo disponibile, è partito in quarta con una raffica di provvedimenti urgenti che sono stati abbastanza bene accolti, anche se per necessità adottati per decreto e senza coinvolgimento parlamentare. Il pacchetto di stimolo anti-COVID potrà essere approvato anche senza l’accordo dei Repubblicani, grazie a una procedura di eccezione. Per il resto, è da ritenere che Biden, per la fretta di governare, si sbarazzerà appena possibile dell’impeachment al Senato, fidando che esista comunque abbondante materiale per lasciar lavorare i tribunali degli Stati, ora non più trattenuti dall’immunità, ad occuparsi del cittadino Trump.
Biden dovrà continuare a dar prova di un dinamismo eccezionale: ci si aspetta da lui la ricostruzione dell’amministrazione federale per riportare la rotta del paese verso una politica responsabile, all’interno come all’estero; e dovrà mostrare nel suo stesso partito una garbata autorità verso la sinistra progressista, che sta lavorando senza scalpitare, ma che spaventa una parte dei suoi elettori.
Certo non potrà cancellare d’un colpo i quattro anni peggiori della democrazia americana. Anche quando la vicenda sarà conclusa - e come dicevo all’inizio, non ci siamo ancora - Biden vorrà intraprendere il rinsaldamento di questa stessa democrazia, condurla a rifiorire e raggiungere traguardi ulteriori. Questi anni hanno portato alla ribalta il tema mai sopito dell’esclusione, politica e sociale. Vi sono riforme possibili, per esempio nel sistema elettorale, nell’economia, nella finanza pubblica, che la combatterebbero e che potrebbero aiutare il Presidente ad avere il successo che merita. Ma da solo, senza la spalla dell’altro pilastro della democrazia americana e quasi sicuramente con la sua accanita opposizione, sembra una impresa al di sopra delle forze di chiunque, eccetto un gigante.
Occorre allora puntare sulla gradualità e sperare che l’amministrazione Biden sia capace di costruire pazientemente, ma con energia, su ciò che è rimasto in piedi.
I primi provvedimenti, pieni come sono di direttive attese e necessarie, indicano che il governo ha una mappa da seguire, e una ipotesi di successo può costruirsi partendo da questa base.
Franklin
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