Lettera da Bruxelles
A dieci giorni dalla vittoria dell'Italia a Wembley, la finale degli europei di calcio è ancora motivo di riflessione a Bruxelles, e non solo per quella che appare una metamorfosi britannica, anzi inglese - mai la distinzione è stata più necessaria.
Lo stadio ha fischiato en masse l’inno della squadra ospite, nonostante fra le due nazioni in gara non vi sia mai stata alcuna particolare rivalità. Un “tributo” tipico degli stadi, ma particolarmente stonato in un evento che ha costituito un respiro di sollievo per popoli che da oltre un anno sono colpiti da lutti tremendi e dovrebbero essere affratellati da una seppure minima comunione della festa e della vicinanza. La famiglia reale che lascia lo stadio all’ultimo rigore parato, ignorando la più elementare educazione al cospetto del capo di Stato ospite, dei giocatori vincitori e perfino della premiazione dei propri, pur sempre vice-campioni con merito. I quali hanno aggiunto del loro, affrettandosi – quale gesto anti-sportivo per gli inventori del calcio moderno… – a togliersi la medaglia del secondo, quasi una iettatura e non un argento col suo valore. C’è stato sconcerto: Bruxelles conosceva inglesi diversi. Sono cambiati.
Il cambiamento sta in una sorta di complesso: l’ansia di chi ha appena lasciato l’Unione Europea di dimostrare a se stessi e agli altri di sapercela fare da solo, istituzionalmente e anche nei simboli dell’immaginario collettivo. La finale, forse l’intera partecipazione al campionato, era dunque un Inghilterra - resto d’Europa, che aveva ormai i contorni del “resto del mondo”, uno sfidare l’impero. La vittoria sarebbe stata il compimento di un percorso controcorrente, e invece, per un pelo, è stata la sconfitta che travalica, e di tanto, la semplice partita. E la sequenza di sgarbi avverte: fuori dell’Europa unita si è più soli e ci si incattivisce, e il giro dello stadio che i giocatori italiani e inglesi fecero festosamente insieme al termine della finale del terzo posto dei Mondiali di Roma nel 1990 (vinta dall’Italia) appartiene a un buon umore che si è perso.
Avevano capito - i tifosi di Wembley, gli stessi reali col bambino vestito da cresima bon ton – che il resto dell’Europa era contro di loro e aspettava con gioia una vittoria azzurra. Espliciti – non credo sia mai accaduto prima – i vertici istituzionali dell’UE belgo-tedeschi-spagnoli avevano dichiarato che volevano l’Italia vincitrice e per una volta hanno interpretato i sentimenti popolari, tra i caroselli notturni di Bruxelles che non hanno coinvolto solo gli italiani, la soddisfazione dei danesi (e con loro di tutti gli scandinavi), i titoli eloquenti dei giornali tedeschi e francesi, il tifo palese di greci, spagnoli o portoghesi, per non parlare di irlandesi e scozzesi. Altrove – arabi, America latina, Africa – stessa musica. Gli inglesi, per una ragione o un’altra, ma anche per il Brexit, hanno finito per essere antipatici a tutti e l’Italia ha vinto per tanti e anche per un’idea d’Europa più grande di sé.
Ma ne è stata inconsapevole, e infatti nel tripudio di tricolori e di qualche vessillo scozzese non è spuntata fuori una sola bandiera europea. Non sugli spalti, non in campo tra i giocatori. La bandiera con le dodici stelle, pure così comune e istituzionalmente nostra, sventolante su municipi e scuole, non ha mai fatto capolino (a Bruxelles, sì). La vittoria sarebbe stata ancora più forte, l’avremmo offerta a quell’Europa che vuole essere unita: un “grazie a tutti” e un messaggio che per molti, sugli spalti o in televisione, sarebbe stato forte e per gli inglesi avrebbe reso la sconfitta ancora più sconfitta, costringendoli a vedere, a casa loro, le dodici stelle in campo blu, vittoriose.
Non è stata una dimenticanza, e per questo l’assenza della bandiera europea va oltre il fatto aneddotico e costituisce una vera lezione: al complessato tribalismo inglese ha riposto un altro tribalismo (provinciale? realistico? immaturo?). Sta di fatto che i simboli europei – inno e bandiera in primis, ma anche gli stessi padri dell’Europa – non sono ancora avvertiti come un patrimonio comune, e dietro questo mancato riconoscimento c’è il divario tra il palazzo e la piazza, tra il progetto che va avanti forte di ragioni strategiche e storiche ma privo dell’adesione del cuore.
Il lavoro per evolvere all’homo europaeus è ancora lungo e questa è la Bruxelles post-Wembley: un impero senza tifosi, e tifosi senza impero. Entrambi hanno vinto, ma con bandiere diverse.
Niccolò Rinaldi
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