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Calenda e le elezioni a Roma

Nella tornata di elezioni amministrative del prossimo ottobre, che pure interessano molte importanti città italiane, l’unica cui tutti gli osservatori attribuiscono una caratura politica nazionale è quella di Roma. Insieme, forse, alle elezioni suppletive di Siena che dovrebbero sancire il rientro in Parlamento del segretario del Pd Enrico Letta.

In un panorama politico che stenta a riassestarsi e ad approfittare dell’efficace azione del governo Draghi per ritrovare plausibili equilibri, spicca l’assenza di una visione politica in quell’area centrale dove volteggiano leadership di notorietà generale ma di scarso seguito elettorale come Renzi, Calenda ed Emma Bonino.

Sono figure che potrebbero a buon titolo intestarsi il merito della nascita di un governo come l’attuale sorretto da un forte consenso nell’opinione pubblica, ma che stentano nei loro comportamenti ad uscire da una dimensione esclusivamente tattica ed attendista.

A partire da Matteo Renzi, che ha lesinato non poco l’appoggio nella sua Toscana alla candidatura di Letta a Siena.

Tutto questo sarebbe più comprensibile se questi leader si facessero convinti portavoce di una riforma in senso proporzionale della legge elettorale, con l’obiettivo di creare un’area centrale che funga da ago della bilancia tra il centrodestra Salvini - Meloni e la possibile alleanza tra il Pd e i nuovi Cinquestelle a guida Conte: un’area che potrebbe risultare attraente anche per la stessa Forza Italia o parte di essa. Ma così non è, perché i suddetti leader si dichiarano convinti sostenitori del sistema maggioritario e cioè di un meccanismo che nei modelli pluripartitici implica la formazione di vaste alleanze. Si tratta di un'evidente schizofrenia che si tende a nascondere dichiarando di voler puntare ad un obiettivo in sé legittimo ma forse avventuroso e cioè allo svuotamento del Pd. Renzi ha spesso sottolineato di voler fare ciò che è riuscito a Macron con i socialisti francesi ed accenti simili si trovano anche in molte dichiarazioni di Calenda. La verità è che sia Azione che Italia Viva veleggiano stabilmente fra il due e il tre percento dei consensi. Dovrebbero quindi, per non risultare velleitarie, farsi promotrici di uno schieramento capace di raccogliere una maggioranza dei consensi. Dovrebbero forse conoscere meglio la storia politica del dopoguerra: vi fu un piccolo partito, come il PRI, che anch’esso veleggiava intorno al 3 per cento, ma che aveva un peso ben superiore alla sua consistenza elettorale. La ragione era che esso fu sempre portatore, oltre che di contenuti, anche di una proposta politica di schieramento alla quale lavorava e sulla quale trovava alleanze con forze di maggiore consistenza. Aveva cioè una piena identità politica e programmatica che alle sparse forze che si richiamano alla cosiddetta liberaldemocrazia manca.

Di tutto ciò deve essersi reso conto anche un uomo come Carlo Cottarelli, in teoria annoverabile alla stessa area di Renzi e Calenda, che ha accettato di essere uno dei saggi indipendenti delle Agorà del Pd che dovrebbero aver luogo a partire dall’autunno.

L’accusa maggiore che viene mossa al Pd è quella di aver iniziato un percorso di alleanza con i Cinquestelle. Si tratta invero di una censura che non è totalmente irragionevole, vista la lentezza e l’opacità con cui quel movimento si è mosso verso posizioni consone alla cultura di governo propria di un grande paese occidentale, europeo e industrializzato. Ma non sarebbe questa la funzione di riequilibrio che in un moderno centrosinistra dovrebbero svolgere forze centrali ma lontane dalle pulsioni sovraniste e populiste che caratterizzano l’attuale centrodestra?

La prospettiva politica indicata da Enrico Letta al momento della sua elezione e confermata nei giorni scorsi alla chiusura della festa dell’Unita, è stata quella di creare un centrosinistra competitivo, formato dal Pd e dalle formazioni liberaldemocratiche che da posizioni di forza negozi un’alleanza con i Cinquestelle e vinca le elezioni politiche. Lo stesso Goffredo Bettini, cui spesso si imputano posizioni eccessivamente filo-grilline, ha in numerose interviste dichiarato la fine del Pd come partito a vocazione maggioritaria (e cioè politicamente cannibale), auspicando la formazione di un’area alla destra del Pd con cui creare una solida alleanza.

Matteo Renzi, cui Bettini si era in primis rivolto a tal fine, ha fatto cadere nel silenzio questa prospettiva. Ci chiediamo cosa aspetti Calenda a raccogliere lui questo invito che gli darebbe un ruolo politico che oggi non ha.

E qui veniamo alle elezioni di Roma. Può sembrare paradossale che, proprio nel giorno in cui il leader di Azione annuncia il comizio finale della sua campagna in Piazza del Popolo per il primo di ottobre, qualcuno possa suggerirgli una mossa politica inaspettata: quella di ritirarsi dalla corsa. Ma questo è proprio ciò che il momento politico richiederebbe. Sarebbe un coup de theatre notevole ma assai utile per il paese e per lo stesso Calenda.

Nessun sondaggio attribuisce a Calenda chance di arrivare al ballottaggio con la destra, le previsioni indicano chiaramente che egli non potrà ottenere altro che un decoroso piazzamento personale. E se anche raggiungesse un risultato molto positivo, questo avrebbe il solo effetto di indebolire a tal punto Gualtieri da far sì che al ballottaggio con Michetti vada Virginia Raggi.

Che senso avrebbe per qualcuno che si è candidato per contrastare il degrado provocato a Roma dalla sindaca Raggi, dare ai romani solo la scelta fra il tribuno dell’estrema destra e la stessa Raggi?

Dunque, un annuncio da parte di Calenda che egli preferisce far confluire i propri voti a sostegno di Gualtieri lo innalzerebbe automaticamente a protagonista di caratura nazionale, leader incontrastato di un’area politica nella quale sarebbe destinato a soffrire quotidianamente la competizione di Renzi e strenuo difensore di un centrosinistra non succube degli ondeggiamenti dei Cinquestelle.

Anzi, il suo appoggio al centrosinistra fin dal primo turno renderebbe questa alleanza più forte del centrodestra, limitando ad un tempo il mancipio dei grillini al secondo turno che lo stesso Calenda teme.

Ma c’è di più, molto di più. Quando Calenda è sceso in campo a Roma, il quadro politico nazionale era molto diverso. Con l’appoggio del Pd governava Conte e non Draghi, come il leader di Azione avrebbe voluto. Oggi c’è Draghi e il Pd di Letta lo sostiene convintamente a fronte delle acrobazie di Salvini. Una vittoria delle destre a Roma, ancor peggio se preceduta da un ballottaggio Michetti - Raggi, sarebbe un duro colpo al governo.

La maggior parte degli italiani desidera che Mario Draghi prosegua il proprio lavoro e nelle condizioni politiche più favorevoli. Un centrosinistra unito ne rappresenta una condizione necessaria.

Questo è dunque il nostro suggerimento a Calenda: convochi una conferenza stampa e spieghi che egli intende favorire la creazione di quel fronte largo del centrosinistra capace di battere le destre alle prossime elezioni politiche, e che per questo si ritira dalla corsa per il sindaco di Roma e fa confluire i propri voti su Gualtieri.

Chiudere, ancorché in zona Cesarini, queste anomale primarie del centrosinistra sarebbe un atto di grande importanza e lungimiranza. Perseverare in questa ulteriore schizofrenia può rivelarsi invece un errore dalle conseguenze non prevedibili.



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