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Democrazia e politica economica

Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare il cosiddetto decreto agosto, su cui la maggioranza ha ieri trovato un faticoso accordo. Faticoso, perché molte erano le pressioni di cui i partiti si facevano, a diverso titolo, portatori ed interpreti. Ma indispensabile, con le vacanze da iniziare, o in corso, e le elezioni regionali alle porte.

È un accordo che non è espressione di un’organica politica economica ma contiene misure finalizzate da un lato a garantire la pace sociale per un autunno che non si prevede facile, dall’altro a irrobustire i temi che le forze di maggioranza cercheranno di cavalcare durante la campagna elettorale.

Fino a metà novembre, quindi, divieto di licenziare e proroga della cassa integrazione, con l’idea forse di prolungare queste misure fino alla fine dell’anno.

Agli italiani che si avviano verso le spiagge o i laghi alpini, il governo cerca di garantire un rientro non traumatico. Come dire: “È stato un primo semestre da incubo, ora, se potete, rilassatevi un po’”. Paradigmatica, in questo senso, la decisione di consentire nuovamente la partitina a carte nei bar, nei ristoranti, negli alberghi e negli stabilimenti balneari.

Certo, è sorto il problema della gestione del lockdown generalizzato, che avrebbe forse eccessivamente penalizzato regioni, come quelle del centro-sud, a marzo poco o nulla contaminate dal virus. Ma a questo ci si penserà a settembre: a ridosso delle elezioni. Ieri è stato dato un piccolo anticipo alle imprese meridionali, prevedendo una cospicua decontribuzione degli oneri sociali. Dopo l’estate, quando il piano del governo di utilizzazione delle risorse europee sarà in un più avanzato stato di definizione, è prevedibile che interventi risarcitori per il Mezzogiorno caratterizzeranno la ripartizione dei fondi tra le varie zone del Paese. È giusto che sia così, ma è anche necessario, se si vogliono vincere le elezioni non solo in Campania ma soprattutto in Puglia.

Tutto questo è perfettamente in linea con le contraddizioni che le democrazie fatalmente portano con sé e che rendono spesso arduo conciliare consenso e ragionevolezza delle pubbliche decisioni. Basta guardare alle polemiche che infuriano negli Stati Uniti, dove cresce il sospetto che il Presidente voglia sabotare l’efficientissimo sistema postale per il timore che la crescita esponenziale del voto per corrispondenza in tempi di coronavirus si riveli una minaccia alla sua rielezione.

Il Commento politico cerca di guardare con realismo alle, spesso confuse, dinamiche democratiche. Proprio per questo, però, crediamo sia indispensabile che dei confini invalicabili siano posti al dérapage che la lotta politica inevitabilmente implica. Sono confini analoghi al grido di allarme che Ugo La Malfa costantemente lanciava affinché l’Italia rimanesse aggrappata alle Alpi per non scivolare nel Mediterraneo.

Abbiamo per questo ritenuto necessario accendere un riflettore su due questioni, dalla cui corretta gestione dipende il successo di una politica di rilancio del Paese.

La prima è quella della modalità di utilizzo dei duecento e rotti miliardi che l’Europa ha deliberato di concedere all’Italia. Abbiamo dunque avanzato la proposta di un forte accentramento delle decisioni al fine di garantire ragionevolezza, celerità e redditività delle scelte.

C’è un’ulteriore ma non meno importante questione che è necessario sottoporre all’attenzione del governo e del Parlamento. Già dall’autunno molte imprese in difficoltà saranno in pericolo di vita. Sarebbe irrealistico dividersi tra sostenitori del laissez- faire e quelli dell’intervento dello Stato nella produzione di beni e servizi, perché l’intervento dello Stato è già a diverso titolo in corso - come si è visto per Alitalia, Ilva e Autostrade – e ancor più si renderà cruciale nei prossimi mesi.

Prima che sia troppo tardi, è questo il momento di decidere se la politica industriale debba avere la fisionomia dell’Iri di Beneduce o quella della Gepi di infausta memoria.

È indispensabile una rigorosa visione d’insieme: una disinvolta ripartizione dei fondi europei e la scelta di ripianare a piè di lista le molte crisi aziendali all’orizzonte costituirebbero, infatti, l’anticamera della crisi del debito pubblico.

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