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Francia, la guerra spegne la campagna elettorale

Lettera da Parigi


Ad esattamente un mese dallo svolgimento del primo turno delle presidenziali, mai come in questo fine settimana l’orizzonte che si profila per il futuro politico e istituzionale della Francia è apparso così incerto e imperscrutabile.


E a questa incertezza corrisponde un dibattito politico e mediatico praticamente sospeso, oscurato su tutti i media dall’incubo ossessivo della guerra al cuore del continente europeo, che il ruolo pro-attivo tenacemente svolto da Macron contribuisce a porre al centro di ogni attenzione. Con la conseguenza immediata di relegare in fondo alla lista (ed ai palinsesti) quelle priorità che fino alla fine di febbraio avevano scandito il crescendo della campagna elettorale, la dialettica fra progetti contrapposti, la presentazione all’elettorato delle idee e delle personalità dei candidati, secondo il consolidato – e un po’ ingessato – rituale della Quinta Repubblica.


In particolare, le scadenze previste per i prossimi giorni lasciano tutti con il fiato sospeso e scoraggiano analisi, approfondimenti e contraddittori fra i candidati suscettibili di venir spazzati via in un soffio dalle notizie drammatiche dal fronte, dalle immagini sconvolgenti dei flussi di profughi diretti nei nostri Paesi, dalle speranze appese al fragile filo dei primi fremiti negoziali, dall’incubo nucleare, dall’ancora embrionale maturazione della prossima mossa unitaria dell’UE chiamata a raccolta a Versailles per confermare e modulare quell’insperato progetto propositivo di fermezza e di coesione avviato fin dall’invasione russa dell’Ucraina.


A fronte di tale opaca cortina di tacita sospensione che si è frapposta alle dinamiche classiche della campagna elettorale, si stagliano – è vero – alcune plastiche certezze. L’annuncio della candidatura del Presidente – in contrasto con le aspettative e con la sua stessa indole battagliera e flamboyante nella ricerca della persuasione e del consenso – si è concretato quasi “en passant”, secondo modalità minimalistiche ed in “zona Cesarini”. La conferma ufficiale delle candidature ammesse a norma di Costituzione ha fissato a dodici le personalità ammesse a correre per il primo turno, mentre sono scattate le disposizioni che regolano i tempi di parola sui media, i controlli sulla gestione dei finanziamenti, la pubblicazione dei patrimoni personali di cui dispongono i concorrenti.


La certezza più adamantina è tuttavia rappresentata dal dispiegarsi a favore dell’incumbent di quello che qui si definisce l’effet drapeau, la quasi meccanica reazione nazionale a non cambiare cavallo in una crisi di così rilevante portata e in una fase di ansia diffusa (e non solo per la sua dimensione bellica stricto sensu) che cresce di ora in ora ed assorbe la stragrande maggioranza della pubblica opinione.


Si attendeva con curiosità l’effetto che la formalizzazione della candidatura avrebbe avuto sulle dichiarate intenzioni di voto; queste solitamente, in tempi normali cioè, tendono a conoscere una quasi naturale contrazione, destinata a rimanere transeunte ed a evolvere, in un senso o nell’altro, con la discesa in campo vera e propria del Presidente uscente. Si passa in altre parole da una sorta di indice di soddisfazione per il decorso mandato alla sostanziale conferma di una reiterata fiducia all’inquilino pro tempore dell’Eliseo.


Si è verificato stavolta esattamente il contrario: i sondaggi fanno stato di un vero e proprio balzo in avanti di Macron che si avvicina ormai ai record raggiunti dal solo Mitterrand nel 1988, con cifre che superano il 30% al primo turno e che conferiscono al Presidente larghissimi margini persino nelle simulazioni – ancora non sufficientemente consolidate – nei confronti di tutti i potenziali avversari, ed in particolare i più radicali come Zemmour a destra e Mélenchon a sinistra.


Ai sondaggi sulle intenzioni di voto si aggiungono quelli sulla popolarità, anch’essi tutti in ascesa sino a livelli mai raggiunti prima, quantomeno in tempi di… pace, a riprova della fiducia riposta dai francesi nel loro “comandante in capo”, a raffronto con le personalità di coloro che lo contrastano.


L’emergenza sanitaria è oramai (forse un po’ frettolosamente) archiviata e alla schiera dei volti oramai familiari al pubblico dei tanti virologi ed epidemiologi, scomparsi da tutti gli schermi, si è avvicendata un’altrettanto numerosa moltitudine di esperti militari o geostrategici, di cremlinologi e di specialisti di storia russa reclutati alla bell’e meglio fra generali a riposo (spesso animati dalla tipica diffidenza di impronta anti-americana per la Nato) o da meno sperimentati, giovani reclute di Istituti di studi internazionali.


Ad incoraggiare questa quasi ossessiva “cronaca di guerra” minuto per minuto contribuisce, oltre all’ovvio disinteresse dell’opinione per le scaramucce politiciennes in seno all’opposizione, il riserbo cui è costretto Macron, che non ha ancora neppure annunciato la data di pubblicazione del suo programma né la sua agenda di campagna, limitandosi a qualche annuncio e qualche scarna incursione in pubblico, secondo la linea da lui enunciata di voler essere Presidente fino a quando lo dovrà, ma di essere, al tempo stesso, candidato per quanto potrà.


Gli opinionisti e i responsabili di tutti i principali media, sconcertati da questa inedita situazione (che rompe rispetto ai confortevoli, rigidi scenari della tradizione) sono all’affannosa ricerca di idee innovative. Persino il dibattito precedente il primo turno, stancamente consolidato attorno ad una pletorica partecipazione contestuale dei dodici contendenti, con tempi di parola parametrati per ciascuno di soli pochi minuti, sembra destinato a venir meno: e Macron ha lasciato chiaramente intendere che non potrà prestarsi, da solo contro dodici, a un vero e proprio assalto congiunto all’insegna dell’anti-macronismo ad oltranza.


Tutte le ipotesi sono possibili e l’esito finale del 10 aprile è ancora imprevedibile; tuttavia, tre dei quatto favoriti combattono disordinatamente con le loro controverse dottrine di pace e di guerra (uscita dalla Nato, non allineamento internazionale, trascorsi di simpatia o di apertura per Putin), mentre Pécresse non decolla né sul piano dei contenuti né su quello della brinkmanship.

Dal canto suo Macron non lesina gli avvertimenti e le cautele, invitando i suoi a non dare nulla per scontato e considerando che il confortevole margine di cui è accreditato rimane suscettibile, nelle quattro settimane che abbiamo di fronte, di subire le ripercussioni imprevedibili di eventi eccezionali cui l’attualità sembra averci oramai preparato.


Sarà interessante vedere come si dispiegherà, passato il capo del Consiglio informale dell’UE di questi giorni a Versailles, la sua agenda; più ancora che per il primo turno, per la solidità e viabilità di un progetto che una elezione di emergenza e per difetto di scelte migliori rischia di minare sul piano della stessa legittimazione a governare nei prossimi cinque anni. E l’appuntamento di Versailles si inserisce a pieno titolo, quasi quanto quelli in divenire attorno al conflitto in corso, nella enunciazione della visione programmatica del candidato Macron fondata sul rilancio della nuova Europa e del concetto stesso di una sovranità condivisa, energetica, ambientale e della difesa, che sono altrettanti capisaldi del credo politico del giovane Presidente francese.


l’Abate Galiani

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